sabato 21 febbraio 2009

Le pastarelle della domenica


A parte non essere potuto andare per colpa della febbre alla festa di compleanno di una compagna di classe bulgara in terza media, una delle poche cose che mi piace rimpiangere -con una nostalgia non fine a sè stessa- è senza dubbio quella di essermi perso la Roma degli anni sessanta, la Roma delle "terrazze, le canzoni, le vacanze, le feste con i dischi e i whisky" che Christian De Sica ricorda, tra le altre cose, nella sua divertente autobiografia ("Figlio di papà", peraltro la lettura più godibile degli ultimi mesi - magari da leggere insieme a "Fratelli d'Italia", per provare a recuperare lo zeitgeist senza prendersi troppo sul serio ) e che spesso affiora nelle conversazioni con mio padre e i suoi amici. Come quella volta che, poco prima di partire per Madrid, un avvocato mi disse che la naturalezza con cui oggi noi ragazzi andiamo a vivere all'estero lo sorprende, perchè per la sua generazione Roma era il centro del mondo, il posto dove tutti volevano vivere, perchè il mondo passava per Roma e ognuno, a suo modo, voleva far parte di quell'ambiente ("quando avevo la tua età, il pomeriggio me ne andavo allo studio di Schifano, non c'aveva una lira, parlavamo, si faceva una pera, magari passavano altri artisti della pop art romana, mi faceva vedere i suoi quadri, e appena riuscivo a mettere insieme due lire me ne portavo a casa uno").

Ma la nostalgia non è solo per questo ambiente mondano, culturale e autenticamente pariolino che è venuto meno. E' che la vita, per lo meno a Roma, a volte dà l'idea di essersi complicata; si è involgarita, si è incafonita, si è voluta fare contemporanea, e non ce n'era motivo. Pian piano, i tempi moderni hanno assassinato l'illusione, l'ottimismo, il gusto della scoperta, e con loro sono diventate anacronistiche e prive d'incanto le passeggiate in centro della domenica mattina; la lettura dei giornali al caffè; le mignon comprate in pasticceria per il pranzo della domenica; lo stadio alle tre del pomeriggio; le conversazioni frivole all'ora dell'aperitivo; le sottoculture tutte. Molto più semplicemente, si sono smarrite -quando non stigmatizzate-quelle "care consuetudini" borghesi che De Sica simboleggia mirabilmente nelle "pastarelle della domenica" in un passaggio memorabile del suo libro, che vale la pena riportare per esteso:

"Sono stati anni divertenti. [..] Si respirava ancora un po' dell'energia del dopoguerra, quella dei film di Aldo Fabrizi: 'Ahò, è domenica, ce sta il pollo!'. Il pollo. Era l'Italia delle pastarelle della domenica [..].
Era un'Italia meravigliosa. Mio padre che mi portava da Ronzie Singer, una pasticceria che stava dove adesso c'è una jeanseria a piazza Colonna, percorrendo tutta via del Corso. Dove c'erano soltanto, come fosse il corso di una Torino allagata di sole romano, le cioccolaterie, i negozi di stoffe e di cappelli, le botteghe eleganti. Roba da fare invidia a Proust.
Oggi quella strada sembra un suk orientale, sporca, rumorosa, coatta. Allora c'era la Cioccolateria Fiat. Era una strada elegantissima. Mio padre mi portava con una carrozzella, scendevamo, compravamo la "treccia", era un pane dolce con i canditi, una specie di panettone, poi la portavamo a casa.
Quando si avvicinava il Natale papà comprava sempre il vischio per mia madre. Erano rituali semplici che scandivano il calendario di quell'Italia. Vischio è una parola che oggi non usa più nessuno. Si attaccava sopra la porta, come la palme della Domenica delle Palme.
Piccoli gesti propiziatori. Care consuetudini. Le pasterelle, la domenica. Che buone."

Anni in cui aveva senso leggere che "l'autista, Luciano di Nettuno, per nobilitarsi si faceva chiamare Vladimiro", o che un attore e uno scrittore americani, giovani e dannati (Montgomery Clift e Truman Capote), "si godevano la Roma dell'epoca, i ragazzi e i paparazzi, le contesse e le marchette, i pomeriggi e le notti nelle saune", o che Arbasino racconti il rifiuto di andare a una colazione mondana perchè "vado a Civitavecchia per mio conto, mi faccio un'etruscata, mi diverto di più..". Oggi nessuno si fa più chiamare Vladimiro per darsi un tono (a parte i travestiti); gli attori e scrittori americani passano le giornate con Veltroni; e le etruscate sono solo quelle che si fanno con la scuola.

E invece, sarebbe bello recuperare il senso delle tradizioni, della ritualità, del percorso. Lo spirito del tempo. Mi viene in mente la meravigliosa "Tatranky" degli Offlaga Disco Pax:

"Ed eccola qui l’anima degli anni ottanta cecoslovacchi: felicità e il suo video colorato che parla del sole e dell’amore italiano mentre in Boemia tutto è fermo, mentre in Boemia tutto è immobile. Ma anche ora c’è una tristezza assurda, nessuno si diverte, sarà che è lunedì sera, sarà che è gente fredda, sarà che non c’è il mare a Praga. E allora mi domando per quanto tempo ancora i bimbi boemi vorranno guardare i cartoni animati della talpa invece che quelli americani o giapponesi."

Ripartire dalla domenica, per esempio: se un tempo era giornata di ginocchia sbucciate, gelati dell'antica gelateria del corso e golf pastello degli adulti seduti con il Corriere della Sera a villa Balestra, a Piazza di Siena o al ristorante sul Tevere, oggi si poggia sulla confortante ritualità post-casualistica del futbol: la stampa sportiva, le scommesse calcistiche, i tramezzini, i racconti del nonno, la radio, il ponte duca d'aosta, la gente da stadio, la partita, le partite, la decadenza del secondo pomeriggio. Di più: recuperare il senso della città oggi, trovare -o creare- qualcosa di cui valga la pena essere parte, senza scadere nella pigra e adolescenziale riproposizione -più da museo delle cere che vintage- di vecchi movimenti del passato, e mandando a cagare la "generazione i-touch", come la chiama un mio amico colto, perchè ormai fa fatica anche premere un pulsante. E non pensare che si è sprecata anche l'opportunità del passaggio fin-de-siecle per organizzare una secessione.

Sarebbe troppo facile, e dunque approssimativo, identificare la causa del malessere nell'attuale Crisi. La crisi, anzi, non può che fare del bene in questo senso. Gli anni della secessione viennese odorano la dissoluzione dell'Impero, gli anni sessanta italiani sono figli del dopoguerra, così come la movida madrileña -come afferma il solito amico- non è altro che lo "sbrodolamento della guerra civile". Piuttosto ha ragione chi dice che il punto di non ritorno è stato il sessantotto. Lì si è incarognito, e un po' è finito, tutto quanto, perchè la gente ha iniziato a prendersi troppo sul serio. E nonostante il riflusso degli anni ottanta, le feste dei socialisti, il conto da trecento milioni in tartine lasciato da De Michelis all'Hotel Raphael, l'ottimismo non è più tornato. Il "modello Roma", la televisione commerciale e le pizze al taglio in centro hanno fatto il resto.

Anche De Sica la vede così, ed è interessante come questa visione abbia poi influito sulle sue scelte:

"C'era un ottimismo bestiale nel nostro Paese, fino al '68. Avventuroso, picaresco, fattivo. Dopo con gli anni di piombo è diventato una merda tutto, sono iniziate le denunce, le proteste, le lotte presto virate nel dolore di lugubri commemorazioni di defunti, ma fino a quel periodo l'Italia era piena di fiducia. [..] Ho cominciato facendo la Rivista, il Varietà, per un sessantottino come anagraficamente ero io, un'esperienza inconcepibile, una cosa totalmente contro lo spirito del tempo politicizzato, la cultura, l'impegno, le scelte, Il Capitale. Che noia tutto Marx, Lenin, Ho Chi Minh, Che Guevara. Preferivo le terrazze, i balli, le canzoni, le vacanze, le feste con i dischi e i whisky. Oggi sembra non solo ovvio, ma addirittura una scelta anticonformista. Ma allora, quasi me ne vergognavo. Eppure mi convincevano l'ironia, la leggerezza, la luce del Varietà. Mi chiedevo: 'Perchè debbo pensare anch'io che sia una merda soltanto per omologarmi agli altri?'. E così cominciai ad amare non solo i difetti di papà ma tutto quello che i giovani criticavano e detestavano".
La cosa che mi ha subito più incuriosito della Spagna è il suo candore, perchè qui il sessantotto non c'è stato, e gli anni sessanta yè-yè sono ora, o comunque sono finiti da poco. La società è ancora divisa in classi, che non si odiano tra loro perchè ognuna ha i suoi punti di riferimento a cui aspirare; i poveri non invidiano i ricchi e i ricchi non disprezzano i poveri perchè tutto quello che realmente importa -come è giusto che sia- è potersi sedere con gli amici nella terraza di tutta la vita con una birra e un pincho de tortilla; i ragazzi bene hanno la riga da una parte e vestono maglioni ralph lauren color pastello, e indossano mocassini tipo timberland; quelli che si considerano intellettuali e di sinistra possono permettersi di fare gli stessi discorsi che noi ci vergognavamo di aver fatto o aver sentito -tanto erano immaturi- alle assemblee di istituto a quindici anni (per intenderci, quello che può dire Jovanotti quando parla in tv); gli omosessuali visibili sono solo macchiette che portano a spasso per Chueca dei piccoli cagnetti; le signore perbene non lavorano e il pomeriggio escono a fare le commissioni con i gioielli, i capelloni, il trucco, i sorrisi; gli avvocati portano le camicie azzurre coi colletti bianchi, le cravatte di Hermès e i mocassini con le nappette; le vecchie carampane lasciano la pelliccia al cameriere all'ingresso del caffè e mentre aspettano il tè commentano il servizio che non è più quello di una volta; il sabato mattina i genitori portano i bambini in giro per il quartiere, dopo averli vestiti rigorosamente uguali, elegantissimi e all'inglese; e la domenica si comprano le pasterelle. A Barcellona, addirittura, si fa la fila per il pollo - come in un film di Aldo Fabrizi.
Quello che mi piace della Spagna è che qui uno come Pasolini non sarebbe servito a niente, non sarebbe mai diventato un maestro di pensiero, non sarebbe neanche morto, avrebbe lavorato in un ufficio tutta la vita e oggi sarebbe solo uno dei tanti vecchi che passano i pomeriggi gironzolando per le aiuole di Puerta del Sol e con gli avanzi della pensione toccano il pisello dei neri.

Perlomeno, rimane la tenerezza e l'ironia di leggere Arbasino, che in Fratelli d'Italia (apparso nel 1963) si gode (e racconta) gli anni migliori di Roma e dell'Italia da una prospettiva privilegiata (quella di chi non conosce il futuro), e può permettersi di far pronunciare a un amico americano questa reprimenda contro un certo lato pavido degli italiani, o se si vuole, contro le pastarelle della domenica:
"E certo, gli inglesi arrivano nei paesi più diversi e ci stanno fra mille avventure anche per anni, senza gemere di nostalgia per le fettuccine della nonna o per il caffè espresso. [..] Gli italiani, invece, mai avventure nè viaggi, e neanche grandi amicizie o grandi amori, grandi attaccamenti. Niente: a casa. Davvero è dal Satyricon che non si va più in giro on the road, non si ride, non si scherza, non si scopa, non si fa tardi; si mangia solo la roba preparata dalla mamma; si dorme solo nel proprio letto, e non lo si rifà perchè non è da maschietto, nè si è mai imparato su una barca o sotto una tenda. Mai un altrove interessante. Solo furbizie e drittate sotto casa. E dietro, solo il cibo. Se ci si allontana di qualche metro, subito il rimpianto dei dolcetti o il magone per i comodini... Mentre proprio in quei film americani più naifs dove sono tutti così 'butch', continuamente l'inconscio sfiora inquietudini che non riguardano il pasto in cucina e il caffè al bar e 'una persona che non dimenticherò mai: la nonna'...".

giovedì 5 febbraio 2009

L'uomo che ha quasi conosciuto Nacho Vegas

In un bizzarro film-conversazione del 1993 ("Despuès de tantos años"), il grande Michi Panero -intellettuale amateur, scrittore senza aver scritto un libro, dandy notturno della Madrid a cavallo degli anni settanta e ottanta, e molto altro- esclamava lapidario:
"Lo peor que se puede ser en este mundo es coñazo".

Più di dieci anni dopo, per celebrarne degnamente la morte -avvenuta nella solitudine di Astorga-, Nacho Vegas scrisse quella che senza dubbio è la sua canzone più ispirata e divertente, "El hombre que casi conociò a Michi Panero", un omaggio, un requiem, una farlocca (auto?)biografia di questo letterato dilettante e notorio viveur. Memorabile è l'inizio:
"Es hora de recapitular las hostias que me ha dado el mundo.
Hoy vendrán a oír mi último adiós. Bien.
Uno a uno van llegando y yo los recibo en batín.
Y unos me llaman chaval y otros me dicen caballero.
Alguno no se ha querido pronunciar.
Yo una vez tuve un amor, pero si he de ser sincero, dije "no" en el altar
y cuando digo no es no.
Fracasé una vez, fracasé diez mil
y aun así alzo mi copa hacia el cielo
en un brindis por el hombre de hoy y por lo bien que habita el mundo.
¡Mirad, las niñas van cantando! Shalalaralalá.."

E poi:

"Nunca fui en nada el mejor, tampoco he sido un gran amante.
Más de una lo querrá atestiguar.
Pero si algo hay capital, algo de veras importante,
es que me voy a morir
y cuando digo voy es que voy.
Lo he pasado bien, y casi conocí enuna ocasión a Michi Panero,
y es bastante más de lo que jamás
soñaríais en mil vidas.
¡Mirad, las niñas van cantando! Shalalaralalá..".

A suo modo, Nacho Vegas sembra voler emulare il più giovane dei Panero, seguendone le orme sul terreno dell'auto-ironia, della dannazione, del disprezzo per i birignao degli intellettuali, per il rifiuto di qualsiasi etichetta - come quella di artista di culto (in un'intervista a El Paìs-Madrid del passato sabato, rilasciata per promozionare il trionfale trittico di concerti che si apprestava a dare nella capitale, quando gli chiedono "Eso de ser artista de culto, constituye una responsabilidad muy fatigosa?", il rocker di Gijòn, scrollandosi le spalle, risponde così: "Ése es un factor coyuntural, pero carezco de tal vocación. Supongo que si Dylan irrumpiera ahora con esos discos de letras densas y canciones largas también lo catalogarían como artista de culto. No me parece mal que me lo digan, pero procuro centrarme en hacer buenas canciones") o di intellettuale della canzone ("Es un rockero 'cultureta'?", gli domandano. "La literatura es una influencia con un peso específico importante entre la gente de mi generación, pero no me gustaría que me consideraran así. Pessoa puede asomar por mis discos igual que afloran las conversaciones que escucho en los bares. [..]; si te llaman 'cultureta', es que algo estás haciendo mal", risponde).

Ma c'è un versante su cui Nacho Vegas non è emulo di nessuno ma maestro di tutti, ed è l'arte di scrivere canzoni che durano sette minuti, non contengono ritornelli, costeggiano il melodramma e nonostante tutto viene voglia di fischiettarne la melodia come se fossero dei successi pop radiofonici. D'altronde, il mestiere del musicista è schematico: raccontare una storia, accompagnarla con la musica, interpretarla con la voce - e Vegas è scrittore, musicista e interprete eccellente. Al di là del ciuffo, degli occhiali da sole, delle droghe, della cantante bionda col cognome danese, dell'entusiasmo per il nuovo movimento indie spagnolo, si tratta di un autore come ce ne sono pochi al mondo (Jeff Tweedy, magari). Se ho detto che Antonio Luque è il Morrissey iberico, allora Nacho Vegas è la prova vivente di cosa sarebbe successo se invece che a Sheffield Jarvis Cocker fosse nato nelle Asturie. Stessa teatralità, stessa voce seducente, stessi testi densi ed eleganti, stesso disincanto nei confronti del successo, stessa ubiquità culturale (musica, video, letteratura), e un ultimo disco -El manifiesto desastre- che altro non è che la stessa presa di coscienza, torturata eppure non pessimista, della fatuità della fama, della felicità, dell'amore che "l'uomo con le stesse iniziali di Gesù Cristo" aveva scoperto nel suo disco più personale e probabilmente più bello (This is Hardcore).

Con queste premesse, il concerto non poteva che essere impeccabile. Nonostante i deplorevoli tentativi del pubblico spagnolo di trasformare ogni brano in un coro da stadio, ciò che colpisce e mette i brividi è l'intimità delle storie che Nacho Vegas racconta: ogni canzone è in realtà una confessione, ti guarda negli occhi e richiede la massima empatia. Vegas non pone nessuno schermo tra lui e chi lo ascolta, è come se non stesse cantando su un palco ma fosse appoggiato al bancone di un bar, con un bicchiere di patxaràn mezzo pieno in una mano, avvolto dal fumo dell'ennesima sigaretta. E questa vulnerabilità si manifesta in tutta la sua grazia nella manciata di canzoni che affronta da solo -lui, la chitarra e la penombra- mentre il resto del gruppo lo guarda come se fosse un profeta anabattista: lo splendore di quelle note, di quelle parole, di quei gesti, probabilmente deriva dallo splendore del mar cantabrico, che non si quieta mai ("Deja que hablen, que yo prefiero oìr las cosas de la mar", canta ne "El salitre"), ma soprattutto arde del desiderio di imparare a guardare le cose con distanza e prospettiva, prendendosi sul serio ma con un sorriso, perchè nella vita si può essere di tutto tranne che un coñazo, e allora ci si può permettere anche dei versi come questi, senza essere un poeta, ma solo un genio:

"Y dìme, si ha salido el sol y no es para los dos,
entonces para quièn?
O si hoy no aùlla el viento por los dos,
entonces por quièn?
Como puedo quererte bien
si yo soy mi proprio enemigo?
Y como recomenzar
cuando hay tanto ayer aquì, en mì?

Podemos ir y preguntarle a la mar
para que nos responda con rugidos,
para que nos diga la verdad".