giovedì 4 febbraio 2010

Essere il Sr. Chinarro (a Malaga, o dovunque)

Ci sono dei luoghi che possono definirsi solo come magnetici, perchè arriva un certo momento nella vita in cui la loro forza di attrazione diventa invincibile, e l'insieme dei frammenti che ne hanno contraddistinto la nostra conoscenza lontana si ricompone di colpo in un biglietto del treno ad alta velocità. Malaga è, per me, uno di questi luoghi. In principio fu il gusto del gelato con l'uvetta, etichettato durante l' infanzia come bizzarro e antiquato, a metà strada tra il puffo e la zuppa inglese nell'espositore del bar Piselli; poi fu la canzone di Fred Bongusto, ricordata da mio padre con esotismo (per la meta, che da ragazzo gli sembrava così lontana) e nostalgia (per gli anni passati); infine fu Antonio Luque, che aveva deciso di andarci a vivere. Come se non bastasse, mentre Madrid era sferzata dal vento gelato, mi arrivarono gli ultimi due segnali: un articolo dell'inserto dei viaggi de El Paìs che raccontava dell'elegante "Malaga degli inglesi" e, soprattutto, gli appunti della mia (futura) amica Cristina di un fine settimana riscaldato dal sole, dalla spiaggia e dalle alici alla brace, che iniziava come una coltellata alla schiena, ovvero lo specchio di quei miei giorni inutili e infreddoliti: "uno sale de Madrid con nieve (o lo que sea), un frío de la leche y tan mal cuerpo que cuesta creer que a menos de una hora en avión (insufrible, eso sí) se encuentre una tierra de viento soleado y terrazas amigables repletas de pescaítos, paellas y... gente!".

Chiesi in giro se era vero, se Malaga meritava tante aspettative, e le risposte unanimi dei miei amici furono un implacabile getto d'acqua gelata lanciato sul mio entusiasmo: è una città brutta, moderna, senza encanto, niente a che vedere con gli altri capoluoghi andalusi, Siviglia, Cordoba, Granaba, Cadice, meglio il fascino mùdejar della piccola Ronda allora, o il glamour di Marbella, ma non andare a Malaga. Ovviamente, non ho creduto a nessuno di loro. Non poteva essere un posto così triste. Me lo sentivo. La mia Malaga sapeva di gelato all'uvetta, di dolcezze sussurrate "in quella casa dal patio antico", delle atmosfere del Sr. Chinarro, di spiagge e pescaìtos fritos.  Stanco allora di girarci intorno, mentre facevo calle Zurbano avanti e indietro quattro volte al giorno, e di limitarmi a immaginare, per dirla con le parole di Cristina, "esa franja infinita de chiringuitos y playa, de lanchas de espetos siempre humeantes y paellas recién hechas, de pescaítos y perros reposados que es El Palo", aspettai che arrivasse Pasqua e che arrivasse Laura, e finalmente, con la sahariana, la camicia di lino e il mio miglior spirito colonialista, salii sul treno ad alta velocità (che anche per me l'aereo è più che "insufrible"), in picchiata verso il sud del paese, arso dalla curiosità di scoprire chi aveva ragione, se i miei amici o Fred Bongusto.

In realtà, non c'è neanche bisogno di uscire dalla stazione di Malaga per trovare una risposta. Basta scendere dal treno. L'aria marina che si respira già ad aprile. La luce. L'afa. Il ritmo della vita. I sorrisi. Le insegne. Il resto è una dolce conferma. L'accento del tassista. Gli edifici con l'intonaco rovinato. I negozi di ultramarinos. I nazarenos con il cappuccio nella mano che s'incontrano per il cammino, indaffarati a raggiungere la partenza della processione. La plaza de toros della Malagueta, soffocata dai grattacieli dozzinali. Le case inerpicate sul monte Victoria, protetto dal più alto Gibralfaro, villette semplici ma chic con le buganville in puro stile caprese. La maestosa alcazaba araba. Il profumo dei gelsomini. Il decadente terrazzo della camera dell'albergo a conduzione familiare. I glicini. La voluttà di sedersi ad aspettare il tramonto, con i capelli umidi, la brezza del mare, e tutta la città distesa a vista d'occhio. 

E' che ci sono due tipi di viaggiatori: quelli che viaggiano per turismo, e quelli che viaggiano e basta, e a Malaga, grazie al cielo, il turismo è riserva indiana dei pallidi europei del nord. E allora noi, belli, colti e abbronzati, calzando espadrillas colorate scendevamo a piedi verso il centro, tagliando per le scalette "che sembra di essere a Via Tragara!", inebriati dal profumo dei fiori e guidati da quello dei ceri, e dallo strato di cera che lasciavano sull'asfalto. Come Pollicino, ripercorrevamo la strada dei nazareni con la tunica viola e, dietro un angolo, sbucavamo nel mezzo di una processione, ci acquattavamo ai bordi e aspettavamo il passaggio del grande trono di legno e oro, con il Cristo sofferente o la Vergine misericordiosa, accompagnato dai passi degli uomini col cappuccio, seguito dai sorrisi timidi dei bambini, mentre gli spettatori ammassati con noi davanti al bar al bordo della strada chiacchieravano, ridevano, attendevano la confraternita di Antonio Banderas, sgranocchiavano pipas e bevevano tintos de verano, mischiando sacro e profano con la stessa nonchalance con cui, al bancone dei bar di Malaga, l'anice e il brandy si  mischiano per dare vita alla più divina delle bevande andaluse, il sol y sombra. D'altronde è Pasqua, e -chiedo un prestito al grande Clerici-  non poteva non esserci, nelle nostre giovanili avventure, nella nostra sporting life, la stagione delle processioni.

L'incenso si dissolve mentre il mare si avvicina, e il suo odore si lascia sopraffare dalle alici che abbrustoliscono sulla brace ricavata in una barchetta di legno abbandonata sulla spiaggia. La vecchia struttura decadente dei baños del Carmen, con le sue colonne ormai solo decorative a picco sugli scogli, ci accoglie con una birra sul tavolo di plastica rosso per riposare, dopo aver passeggiato per ore lungo il mare, attraversando i quartieri del Palo e del Pedregalejo, le loro umili casette colorate ad un piano a ridosso del mare "così Italia anni sessanta!", i ristorantini di pesce con i camerieri attempati, i chiringuitos con le sdraio, i cani senza guinzaglio, la gente rilassata, con la camicia nei pantaloni, la pancia e i capelli corti impomatati. Beviamo una manzanilla al Pimpi, la bodega simbolo della città, perdendo i sensi nel cremoso salmorejo, emblema di una qualità della vita senza eguali. Ci fermiamo a comprare pistacchi, uva passa ed enormi olive nella drogheria di un vecchietto senza età, lui e la drogheria, e le olive le pesca una per una in un barattolone di plastica pieno di salamoia, e sono buonissime, carnose, come un bacio dopo una corsa. Stremati, arriviamo alla fine della passeggiata come se fosse finito il mondo: la spiaggia muore davanti a un muro, un bar con i muri scrostati allunga i suoi tavolini fino all'acqua, l'aperitivo si fa a tutte le ore, una barca solca l'orizzonte, la luce del sole si riflette sull'acqua e, sdraiata sulla panchina, da un paio d'ore addormentata, ti guardo di sfuggita da sotto il libro di Ray Loriga, e il tuo collo, per dirla col Sr. Chinarro, è lo specchio delle fate.

Già, il Sr. Chinarro. Ero convinto che Antonio Luque vivesse a Siviglia, dove è nato e dove ha registrato tutti i suoi dischi fino alla recente svolta più pop de El fuego amigo, e invece un paio di mesi prima di perderci per Malaga ho la fortuna di conoscere al Cìrculo de Bellas Artes, glorioso edificio sulla Gran Vìa madrileña, durante un concerto di Darren Hayman, il mitico Jesùs Llorente, con il suo inconfondibile aspetto (più da nerd che da hipster) barba-occhiali-camicia a scacchi. Llorente ha per me le stigmate del santo e la fede del missionario, perchè fu lui, nel 1993, ad innamorarsi così tanto del Sr. Chinarro che decise di fondare una minuscola etichetta, Acuarela, solo per pubblicare i suoi primi oscuri, criptici, meravigliosi lavori. Oggi Acuarela è una realtà musicale affermata e Sr. Chinarro ha cambiato rifugio discografico, ma Jesùs e Antonio continuano ad essere amici, e quando mi avvicino al primo per chiedergli del secondo, mi racconta che l'ha chiamato nel pomeriggio per dirgli che il suo nuovo appartamento a Malaga, a due passi dal mare, è così piccolo che quando i vicini tagliano le cipolle a lui viene da piangere.

La nuova etichetta del Sr. Chinarro, Mushroom pillow, ha da poco ripubblicato tutti i suoi vecchi dischi, quelli che Antonio Luque non vuole più cantare, perchè, come spiega durante il bellissimo programma Mapa sonoro (quando in Italia qualcosa del genere?), mentre si fa tagliare i capelli nella peluquerìa Pepe (nella Malaga più pura),  "quando un regista fa un film al cinema si va a vedere solo quello, e non un collage con i suoi film più vecchi, e mi piacerebbe che fosse così anche ai miei concerti, vorrei suonare solo il disco nuovo". Comprarli, ascoltarli e leggerne i testi non è quindi solo un piacere, ma un vero e proprio imperativo morale. E' che il Sr. Chinarro non si ascolta, o almeno non solo quello, perchè il Sr. Chinarro si è, a Malaga, a Roma o dovunque, perchè altro non è che uno stile di vita. Sbaglia anche un famoso giornalista e scrittore, normalmente illuminato, che non poco peso ha avuto nella mia formazione letteraria, quando mi scrive "ridimensioniamo la cosa: Sr. Chinarro mi piaciucchia, ma non lo ritengo come fai tu il nuovo Bach-Beethoveen-Wagner-Puccini". Il punto non è quello; il punto è l'ineluttabile naturalezza di perdersi nelle sue frasi misteriose, ellittiche, apparentemente slegate, velatamente ironiche, aspre, poetiche, fantasiose, ridondanti di rimandi popolari e costumbristi, parole  magiche che acquistano nuovi significati, legate dal disincanto dei ricordi e dello scorrere quotidiano.

D'altronde, Luque lavorava in una fabbrica di merendine, era un quadro, con la sua espressione imbronciata, i suoi modi goffi, ed era insopportabile accettare di vivere una seconda vita da artista nel cono d'ombra della realtà, o viceversa, con gli impiegati da rimproverare che lo riconoscono e si confessano fan. Arrivano così i dischi duri, difficili e solitari dei primi anni duemila, La primera obra envasada al vacìo, El ventrilocuo de sì mismoCobre cuanto antes, che spiazzano e deludono la critica dopo i piccoli grandi successi degli album precedenti (El por què de mis peinados e Nosèquè noseècuàntos), perchè Luque rinuncia ai colori dell'acordeòn, delle tastiere, delle melodie dell'amico Belmonte e dei cori femminili, per tornare a fare tutto da solo, riempiendo le melodie scabre di chitarre petrose, nude, essenziali, che si rincorrono e si disperdono come il fumo dei ceri in movimento, come l'odore dell'incenso nelle navate della Manquita, la Cattedrale di Malaga, come cavalli sotto la pioggia, e adornandole con la sua prosa inafferrabile. Sono quelli i dischi da cui partire, perchè sono i più sinceri. Si disintegra il concetto di canzone (così come nel suo recentissimo esordio letterario, con i due racconti di Socorrismo, Antonio Luque ha ha fato lo stesso con le regole della narrativa), sono solo frasi che si susseguono senza una logica, brani che si susseguono senza un ritornello, dischi che si susseguono senza un singolo radiofonico.

E' un percorso interiore che conosce l'ironia ("las misses no sabràn que responder/Es Prusia un territorio o un farol de taxis libres?"), l'amore ("en el trampolìn de la piscina, desde el mes de junio abandonado, tu cuello es el espejo de las hadas"), la nostalgia ("no tienes ni idea del viento que soplaba"), l'assurdo ("Los domingos en el campo, la paella que se pasa al lado de otro drama forestal/Yo no hice nada, tengo el coche lleno de latas de Fanta machacadas"), le visioni quotidiane, che abbiano un senso oppure no (vestiti macchiati d'olio, chipirones alla plancha, cani che si perdono nei parchi o nei parcheggi del Burger King, case sepolte dalla vegetazione, finali di canzoni perdute, ananas che cadono sulla spiaggia..) e si trasforma, si sublima in un linguaggio universale da cui, una volta che si riconosce come proprio, non si può più tornare indietro. E allora io sono il Sr. Chinarro, come sono Aki Kaurismaki, come sono Robert Rauschenberg, perchè le loro opere sono il mio modo di affrontare la vita e la mia vita è nelle loro opere, e io questo gliel'ho detto ad Antonio Luque, nel bagno di un club minimalista di Pamplona, dopo un suo concerto, ma chissà se l'avrà capito, mentre si lavava le mani, e mi regalava un foglietto con il testo di una canzone inedita.

Alla fine dei giochi, allora, ha ragione lo scrittore peruviano Sergio Galarza, quando racconta che la sua ragazza lo chiama "el Sr. Tristarro, dice que no hay tío que cante más triste como él", mentre per lui, in realtà, "es más melancólico que otra cosa", perchè Nikolas lo insegna, la malinconia è la felicità di essere tristi, e niente lo è più del Sr. Chinarro, più di Malaga, più di questa vita. Anche Fred Bongusto aveva capito tutto, già dal 1963: "Il mio amore e' nato a Malaga Malaga Malaga/Il mio cuore resta a Malaga Malaga Malaga/In quella casa dal patio antico/quante dolcezze ti ho sussurato/In quella notte di grande fiesta/io ti ho donato il mio cuor tutto l'amor". Io ci ho messo un pò più tempo, ma il risultato è stato lo stesso, perchè appena ho conosciuto Malaga, anche il mio cuore è rimasto lì, e un giorno, quando saprò cosa farmene, andrò a riprendermelo, magari in una canzone del Sr. Chinarro.