martedì 27 ottobre 2009

Preferisco il rumore del mar cantabrico #1 (San Sebastiàn)


C'è un filo bianco come la schiuma delle onde del mar cantabrico quando si infrangono contro gli scogli che unisce di salsedine, umidità e malinconia i lavori di tanti artisti del nord della Spagna. Da San Sebastiàn a Vigo, passando per Bilbao, Santander, Gijòn, si susseguono città sferzate da una pioggia eterna, cieli grigi squarciati da pomeriggi di sole che accecano i ragazzi seduti sul paseo maritimo, montagne che muoiono nel mare, porti (post)industriali che sembrano il riflesso della dirimpettaia costa inglese, trasformandola da miraggio geografico a influenza culturale reale. Il nord della Spagna è il posto più diverso dalla Spagna che possa esistere e per questo motivo ha generato negli ultimi quindici anni un movimento musicale indipendente che di spagnolo non ha nulla, ma che guarda invece -con un misto di sfida ed ammirazione- oltremanica, quando non direttamente oltreoceano. Solo per fare namedropping, da est a ovest hanno segnato (e molti continuano a segnare) la scena realtà come Tulsa, La buena vida, Family, El inquilino comunista, Mcenroe, Single, Brian Hunt, Mus, Nosotrash, Manta Ray, Nacho Vegas, Migala, Abraham Boba, una fenomenologia musicale con parecchi punti in comune che, se proprio si vuole tracciare una linea di continuità con il movimento indie spagnolo esploso negli anni novanta, più che competere con l'ambiente pop di Madrid o Barcellona sembra guardare direttamente all'Andalusia inquieta che faceva il verso ai New Order o agli Smiths con gruppi come Los Planetas o Sr. Chinarro. Prima o poi bisognerà parlarne di tutto questo, ma non ora.

Ora c'è una città che è la faccia più allegra del nord della Spagna, con la sua spiaggia infinita, il suo festival del cinema, i suoi bar con il flipper davanti al Kursaal, i negozi fighi tipo Loreak Mendian intorno alla cattedrale, le turiste inglesi con i leggings che si divertono al Bataplan; eppure è una città che non riesce a scrollarsi di dosso la sua inquietudine neanche quando ride, perchè le onde non smettono mai di infrangersi contro i pettini del vento di Chillida, il monte Igeldo fa calare la nebbia sulla spiaggia di Ondarreta, la Real Sociedad è scivolata in serie B, le ragazze basche piangono con le nuvole nere come sfondo, e le estati si trasformano in inverno nel giro di una canzone. Quella città sempre fuori stagione è San Sebastiàn e in un bel libro iper-romantico di qualche anno fa, "El invierno en Lisboa" (Seix Barral, 1987), ambientato -però- proprio nella capitale guipuzcoana, Antonio Muñoz Molina la descriveva così:

"Supongo que hay ciudades a las que se vuelve siempre igual que hay otras en las que todo termina, y que San Sebastiàn es de las primeras, a pesar de que cuando uno ve la desembocadura del rìo desde el ùltimo puente, en las noches de invierno, cuando mira las aguas que retroceden y el brìo de las olas blancas que avanzan como crines desde la oscuridad, tiene la sensaciòn de hallarse en el fin del mundo".

San Sebastiàn è uno stile di vita oltre che una città definitiva, la più affascinante di tutto il paese, dove tornare e tornare e tornare un'altra volta ancora, per rigenerarsi, perchè ha ragione Muñoz Molina, sembra la fine del mondo, ed invece non finisce un bel niente, perchè è piena di vita. Allo stesso tempo, è un luogo in cui giocare a sentirsi Tonio Kröger ("Io sto tra due mondi, di cui nessuno è il mio, e per questo la mia vita è un po' difficile"), in cui provare a fuggire da sè stessi, in cui indulgere nella contemplazione del muro bianco, sotto forma di mare perennemente increspato, di cui si sente sempre il fremito. Qualche anno fa un mio amico che lì ha una casa a cinque minuti dalla spiaggia mi spedì il disco che più di tutti incarna un certo spirito donostiarra, "Un soplo en el corazòn" dei Family, un duo assurdo che a metà degli anni novanta decise, più per gioco che per passione, di registrare un disco fondamentale per un'intera generazione e poi scomparire per sempre. Un soplo en el corazòn è il disco da ascoltare di inverno quando si ha nostalgia dell'estate appena trascorsa e si attende con trepidazione l'estate che deve arrivare, perchè le cose più belle e quelle più tristi succedono solo in quei tre mesi, e il resto del tempo sono solo esercizi spirituali per giovani adolescenti, in cui imparare la nobile arte del rimpianto e dell'illusione, come ne "El bello verano":

"Tengo ganas de fiesta, de que acabe el invierno, de volver a nadar en el mar. De soñar el verano en el que fuimos novios y poderle cambiar el final [..] Tu cara triste, mi amor de plata, podemos volver a empezar. Seremos delfines o ballenas azules viviendo en el fondo del mar".

Perchè San Sebastiàn, così come l'estate, o l'adolescenza, o il nord, sono come il diritto secondo Savigny, non hanno un'esistenza empirica per sè stesse, ma la loro essenza, piuttosto, è la vita stessa dell'uomo contemplata da un punto di vista speciale. Un disco che parla di San Sebastiàn è allora necessariamente un disco imperfetto, ingenuo, immaginativo, ma allo stesso tempo un disco "in cui non manca nulla e nulla è di troppo", come lo descrisse il mio amico basco, perchè così è la città che rappresenta. Lo stesso amico che, in una recente lettera, si lamentava per la sua incapacità di afferrare i dettagli di ciò che lo circonda, perchè "credo che arrivo alle cose, le capisco però rimango lì, non vado oltre, mi fermo alla superficie, non approfondisco e così quel poco che imparo non posso trasmetterlo", quando invece proprio lui mi ha trasmesso il dolce piacere di sedersi per ore e ore sul muro della spiaggia più estrema della città, quella di Gros, con un botellìn di birra dopo l'altro in mano, finchè il sole non tramonta dietro l'isola di Santa Clara, i surfisti più temerari sciamano verso i bar del lungomare, il vento autunnale soffia sempre più forte, e si fa l'ora della proiezione del prossimo pallosissimo film argentino al festival;  
oppure di ripararsi in certi gelidi pomeriggi d'inverno dietro le vetrate del Branka, il bar sotto la casa di Chillida e al lato del circolo del tennis, con un mentapoleo fumante tra le mani, le ragazze che distrattamente passano davanti e il giornale sportivo aperto sul tavolo di fòrmica; in un caso e nell'altro, sempre con lo sguardo fisso al mare, rivolto alle onde che arrivano da chissà dove per morire sulla spiaggia, ripensando alle estati mancate della nostra vita e avendo fiducia in quelle che verranno, ricordando gli amici del mare che -chissà perchè- il resto dell'anno non esistono, affondando nella nostalgia di certe melodie del gruppo più famoso mai uscito da San Sebastiàn, La buena vida, che, guardacaso, proprio in una canzone che si chiama "Verano" si auguravano che "Tal vez el mejor verano sea el que hoy me das".

domenica 18 ottobre 2009

1999, o l'anno in cui è cambiato il mondo




E' difficile staccarsi da 1999, l'ultimo disco dei catalani Love of Lesbian, che più che un disco è in realtà un piccolo romanzo di formazione, il resoconto -molto letterario- di un anno chiave nella storia d'amore post-adolescenziale tra due ragazzi di Barcellona. E' difficile staccarsi perchè è un disco trascinante, nostalgico, emozionante, così come emozionante è la voce di Santi Balmes, cantante e autore dei testi, che con le sue parole è come se ci mostrasse la parete piena di polaroid della sua stanza di dieci anni fa. E' difficile staccarsi perchè ognuno di noi ha vissuto il suo 1999, ed allora ad ascoltare certe storie di grida, concerti, frangette, dischi, questioni di famiglia, fughe e finestre rotte vengono in mente altre storie, questa volte vissute, che pero' non hanno avuto nemmeno la consolazione della memoria in un disco così bello. In un'intervista, a domanda banale ("¿Cuánto de autobiográfico tiene el disco?"), Balmes risponde da campione: Yo diría que un 70 por ciento es autobiográfico y el resto es fantasía, como me hubiera gustado que fueran las cosas en un momento dado ¿no?. Ha ragione: per quanto si può essere felici in un certo momento storico, non si perde mai la consapevolezza di poterlo essere ancora di più, e allora anche il passato -soprattutto in un disco- è bello ricordarselo in parte per quello che è stato e in parte per quello che sarebbe potuto essere.

Il passato dell'universo di Santi Balmes si apre con l'impattante immagine di un eterno ritorno sul luogo del delitto sentimentale. Allì donde solìamos gritar è il ritorno, dieci anni dopo, alle panchine sopra il porto industriale di Barcellona, dove Balmes andava a gridare con la sua ragazza quando si sentivano inquieti. Quelle grida si sentono ancora, così come quelle panchine ancora conservano tutti i versi di Heroes, che avevano inciso al buio e senza pensare,  "con las faltas de un chaval". Dodici canzoni e dodici polaroid dopo, il disco si chiude con 2009. Voy a romper las ventanas, ovvero la consapevolezza che per quanto tempo sia passato, è inutile provare a dimenticare, perchè tanto non è cambiato niente; che è ancora presto per  rinunciare, perchè, come dice anche un mio amico di Pamplona, la malinconia è la felicità di essere tristi; e che soprattutto, rispetto a quegli anni, non siamo mai cresciuti, e non ci siamo mai equilibrati (e possibilmente, non lo faremo mai). L'ultima immagine fa allora il paio estetico con la prima: non sono più grida che fendono l'aria, ma sassi che rompono finestre, vetri che piovono, ricordi che ritornano:

"Voy a romper las ventanas
para que lluevan cristales,
ven a romper las ventanas,
ven a gritar como antes,
ven a romper las ventanas
y hacer del caos un arte,
voy a romper tus ventanas
y voy a entrar como el aire.."
 

Dieci anni fa c'erano finestre ben precise che avrei voluto rompere, per poterci entrare come l'aria. Stanze da letto ben definite, con la moquette per terra e i vocabolari di greco e latino sugli scaffali. Universi di lentiggini da esplorare. Senza la forza visiva presente nel disco dei Love of Lesbian, descrissi il mio 1999 (proprio quell'anno!) in un libro che si potrebbe definire -Cortàzar non si offenderà- di "realismo fantastico", perchè raccontavo una storia vera che in realtà non era mai esistita, o meglio, forse una storia di fantasia che in realtà, per me, sì che era esistita. Che poi, quando si racconta una storia, soprattutto se è la propria storia, è davvero così importante sapere se è successa davvero? Ci saranno sempre delle cose che non si possono raccontare, ed altre che è meglio aggiungere. Lo stesso Santi Balmes, rispondendo a tutt'altra domanda, offre una lettura su questo tema della sincerità. Siccome ha scritto i primi tre dischi in inglese e gli ultimi tre in spagnolo (rinnegando la scelta di cantare in un'altra lingua come un errore che nessun gruppo dovrebbe commettere), gli chiedono che ruolo ha per lui il catalano, di fatto la sua vera lingua madre:
 
"El catalán es nuestra lengua materna, es lo que hablamos en la furgoneta. Yo aprendí a hablar castellano a los cinco años. El problema que tengo yo con el catalán, que quizás lo debería de superar, es que al ser mi lengua familiar, me pongo más serio. Con tu madre no hablas de lo que hiciste anoche... me cambia mucho la configuración psíquica cuando hablo en una u otra lengua, es una pasada".

Ci sono lingue in cui è più facile parlare di sè stessi, perchè non sono la nostra lingua. Ci sono storie in cui è più facile identificarsi, perchè non parlano di noi. Ci sono ricordi in cui è più facile riconoscersi, perchè non sono i nostri, ma quelli che avremmo voluto vivere. Mi ha detto un amico che la ragazza con cui dieci anni fa avrei voluto gridare si è sposata la settimana scorsa. Gli ho risposto che, allora, la settimana scorsa si è definitivamente conclusa un'epoca. Quell'epoca iniziata nel 1999, che doveva essere l'ultimo anno del mondo e che invece -ora capisco- per me, come per Santi Balmes, è stato solo l'ultimo anno di un certo mondo, di cui oggi non rimane nulla, se non la certezza di averlo vissuto. Meglio così; se domani ritornasse, non saprei più come viverlo.

domenica 4 ottobre 2009

Non arrivarono avvoltoi, perchè anche loro erano morti


Non è raro nè indolente fermarsi ad osservare, di tanto in tanto, la piccola biblioteca o la collezione di dischi o l'insieme delle immagini appese alle pareti della propria stanza e domandarsi che cosa lega tra loro quei nomi, quei titoli e quei volti che, come scriveva lo scrittore e filosofo messicano (ma nato a Firenze) Alejandro Rossi, per sè stessi non sono altro che "objetos sin historia, que nos rodean de soledad". Non è raro nè gratuito aprire gli scatoloni polverosi pieni di oggetti che ci si è portati dietro da una città lontana e domandarsi che cosa, al di là dei singoli oggetti, si è effettivamente preso, ed appreso, in quell'altro mondo, ormai scivolato via come spremuta d'arancia tra le mani. Non è raro nè nostalgico pensare alle carcasse che si sono disseminate in altri paesi, in altre vite, nel proprio passato e domandarsi che cosa pensava Antonio Luque quando nella pagina interna del suo primo disco (Sr. Chinarro) scriveva "no acudieron buitres, pues tambièn habìan muerto", e se aveva ragione.

Ciò che è raro e, in fondo, inutile, è dare delle risposte certe a queste domande. Meglio, molto meglio, lasciare che l'inquietudine ricostruisca il percorso a ritroso, limitandosi ad accompagnare i passi come il battito delle mani accompagna un flamenco gaditano. Meglio, molto meglio, lasciare che poco alla volta indizi confusi, associazioni fugaci e casualità esistenziali suggeriscano i nostri contorni, tracciando le linee verosimili, malinconiche e senza troppe ambizioni delle tante cose che ci sono passate per la testa e per le mani. Sempre Alejandro Rossi, nel suo imperdibile Manual del distraìdo (editore Anagrama, 1980), parlando di come affrontare proprio il suo libretto, ci offre una chiave di lettura molto più generale, applicabile non solo alla letteratura, ma ai viaggi, agli incontri, alla vita stessa: "Lèelo, si es posible, como yo lo escribì: sin planes, sin pretensiones còsmicas, con amor al detalle". D'altronde, quello di pensare che dietro a tutto ciò che ci circonda ci debba essere necessariamente un senso puntuale, che la nostra intelligenza è chiamata a disinnescare, pena una terribile e indifesa ignoranza, non è un tratto naturale di qualsiasi carattere; anzi, è più che legittimo non assegnare alcun significato profondo ai propri gesti e all'interpretazione dei gesti degli altri. Tuttavia, quando tale inquietudine latente esiste, essa costringe a interrogarsi criticamente su ogni aspetto della propria vita, dal film appena visto al silenzio di una ragazza lontana, dalla ricetta del salmorejo alla panchina del giocatore apparentemente più talentuoso della squadra. Questo morbo, di cui Rossi -che ci ha lasciato appena qualche mese fa- si confessa felice vittima ("Pero que soy una persona que piensa, lo puedo jurar. Todo el dìa, desde que me despierto, pensar es una actividad que practico con desesperaciòn y desgano"), lo stesso autore lo esprime attraverso le riflessioni di Georg Christoph Lichtenberg, scienziato, scrittore e filosofo tedesco del diciottesimo secolo:

"Uno de los rasgos màs singulares de mi caràcter es ciertamente la extraña supersticiòn que me lleva a extraer una significaciòn de cada cosa y en un dìa transformo a cien objetos en otros tantos oràculos".

Scorre dunque sotterraneo il riconoscimento che gli oggetti e le persone che ci attraggono e di cui ci appropriamo durante le varie fasi della vita si riflettono su di noi, e con i loro influssi contribuiscono ad orientarci verso una certa direzione, che solo apparentemente ci sembra di aver scelto. Avvicinarsi a un certo stile altro non è, dopo tanti pensieri, che il risultato della raccolta delle cose e delle persone che abbiamo trovato e, nel tempo, lasciato per strada, nella speranza di aver trovato e lasciato bene. A questo proposito, spiegava Julio Cortàzar al suo intervistatore durante una lunga puntata del 1977 di A fondo, il leggendario programma della TVE che in quegli anni aprì le porte della televisione ai più influenti scrittori di lingua spagnola di questo secolo, che se uno ha delle cose da dire e non le dice nel modo che sente essere l'unico modo per dirle, allora è come non averle dette o averle dette male. Questa è l'importanza di cercare e trovare il proprio stile, per immunizzarsi di fronte alla paura di non poter vivere tutto ciò che capita di interessante nel modo in cui si vorrebbe viverlo, per respingere l'inquietudine che raffiora quando ci si rende conto di non essere felici quanto si potrebbe esserlo, e spinge ad iniziare altri quattro libri quando quello che si sta leggendo, in realtà, non è che sia così noioso.
Tuttavia, questa foga di conoscere, di accumulare, di sperimentare, tanto in libreria come al bancone del bar, è l'unica strada percorribile per educare la propria sensibilità, pur accettando sin dal principio la premessa che la vita, come avverte Nacho Vegas in La pena o la nada, "es parte buscar placer, y parte hallar dolor", anche se tra il niente e il dolore è sempre preferibile il secondo. Perchè se alcune cose le abbiamo a portata di mano, altre ci accompagnano come ricordi e molte altre ancora sono invece solo delle carcasse, sulle quali neanche più volteggiano gli avvoltoi, perchè sono morti anche loro. Ma tutto ciò serve a darci uno stile, che non può che mutare ed evolversi al mutare ciò che ci circonda. Non a caso, con queste parole si conclude uno dei tanti brevi capitoli che formano Nocilla Dream, il sorprendente romanzo d'esordio, marcatamente postmoderno, che Agustìn Fernàndez Mallo, fisico e poeta galiziano di spiccato aspetto indie, ha pubblicato nel 2006:

"De ahì que el "yo" consista en una hipòtesis inamovible que al nacer se nos asigna y que hasta el final sin èxito intentamos demostrar".

Non a caso, perchè Nocilla Dream, pubblicato -coraggiosamente- in Italia da Neri Pozza con il titolo Il sogno della Nocilla (ovvero, l'autarchica Nutella spagnola), non è un romanzo ma un insieme di stralci, soprattutto iniziali, di storie vere e storie inventate in cui realtà e fantasia spesso si intrecciano, permettendo a volte di ricostruire i loro antecedenti o di immaginarsi il loro prosieguo, e altre volte no. Ovvero, nient'altro che la stessa fenomenologia di esperienze che si ripete nella vita. Coglie bene lo spirito di quest'opera bizzarra un articolo dell'Unità, secondo cui il lettore "si accorge, spaesato divertito sospettoso, che il mondo non è fatto di cose stabili ma dei significati che vengono dati di volta in volta alle cose". E infatti, "è davvero impossibile riassumere Il sogno della Nocilla, perchè le molte storie che Mallo racconta hanno senso solo in un insieme in cui la storia della prostituta che sta in un bordello al limite del deserto del Nevada, e quella del venditore di disegni per tombini, e quella dell'uomo che costruisce a Las Vegas un monumento forse geniale forse incomprensibile a Borges, combaciano tra loro solo come storie strappate: letteralmente lacerate come pezzi che per avere un senso devono unirsi ad altri pezzi di vita, ad altri frammenti di mondo". La conclusione è che Nocilla dream è "un disperato e euforico atto di amore verso il paesaggio di rovine lucenti del post-contemporaneo, un luogo ancora senza nome ma in cui già abitiamo tutti senza saperlo".

Il cerchio si chiude, perchè Fernàndez Mallo, nella concisa biografia che accompagna il risvolto del suo libro, si dichiara "fan de Sr. Chinarro", come lo sono io. Addirittura, in un articolo dello scorso maggio dedicato dal quotidiano Pùblico ai "musicisti che scrivono come poeti", lo stesso autore ritiene al riguardo che, sebbene si possano salvare frammenti di varie canzoni, non manca qualche esempio di canzone che può considerarsi interamente come un'autentica poesia: "no hay muchas, pero una canción que creo que funciona toda ella como poema es Escapa amanecer, de Sr. Chinarro", proseguendo poi l'articolo che "curiosamente, casi todos los poetas consultados han mencionado a Antonio Luque, el nombre real de Sr. Chinarro, como uno de los letristas -alguno lo llamó poeta- más destacados en la actualidad". Il cerchio si chiude, perchè Escapa amanecer, una delle canzoni meno conosciute e più dolenti del Sr. Chinarro e, allo stesso tempo, una delle mie preferite, guardacaso fa parte proprio del primo disco del gruppo di Antonio Luque, quello degli "avvoltoi che non arrivarono, perchè anche loro erano morti". Ho pensato tante volte a cosa vuol dire questa frase, osservando i cactus arsi dal sole fotografati nella copertina del disco, ascoltando la storia "strappata" del niño calamar, e per fortuna non l'ho ancora capito.