Sono passati quindici anni e dieci album dall'esordio discografico di Antonio Luque con lo pesudonimo del Sr. Chinarro e, come lui stesso racconta in un'intervista a El Paìs-Madrid (concessa in occasione del concerto di ieri sera nella capitale spagnola), il suo graduale incremento di successo lo ha colto un po' di sorpresa ("Noté que, de repente, empezaba a venir más gente a los conciertos y que recibía más atención en los medios. Pero todo en una escala normal, no me he hecho rico ni muchísimo menos"). In realtà, l'unica cosa che veramente coglie di sorpresa, è pensare a quanto l'autore sevillano sia, tutt'ora, sottovalutato, tanto in patria come all'estero. Perchè una cosa va detta subito: se Morrissey fosse nato a Siviglia, si chiamerebbe Antonio Luque. E d'altronde, il mondo si divide in due in categorie: chi ama il Sr. Chinarro, e chi non lo conosce. Tertium non datur.
In questi anni, soprattutto Rockdelux -la rivista spagnola Bibbia della scena musicale (più o meno) indipendente, che lo ha sempre portato in palmo di mano- ha contribuito a formare il culto sotterraneo per Antonio Luque, le sue canzoni lineari, il suo tono di voce grave, i suoi testi peculiari; a farlo diventare un autore di riferimento per un'intera generazione cresciuta con Radio Nacional 3; a creare un vero e proprio mito intorno alla sua figura introversa, lontana dai centri mediatici del paese, affatto piaciona (tra gli altri, Agustìn Fernàndez Mallo -il più importante caso letterario spagnolo degli ultimi anni con l'interessante e post-moderno "Nocilla dream"- dichiara di essere un suo fan già nella quarta di copertina del suo libro, come se indossasse una spilla sul cardigan). Ricordo una sua intervista alla televisione in cui diceva che la gente a volte si sorprende per la sua ordinarietà quando lo incontra, magari su un palco, per la prima volta, ma che lui è fatto così e non ha intenzione di cambiare, perchè non c'è bisogno di avere un aspetto da musicista per essere un musicista. In effetti, Luque sembra uno che lavora in un negozio di dischi, piuttosto che uno che i dischi -meravigliosi- li compone. E non è un caso che fino a pochi anni e dischi fa, ancora lavorasse in una fabbrica vicino Malaga, dove orgogliosamente vive, a due passi dal mare.
Senza esagerare, ho sempre pensato che Sr. Chinarro è quanto di meglio esiste nella musica europea attuale. Questo per l'altissima qualità media delle sue produzioni, per il costante miglioramento che cela ogni nuovo lavoro, per una traiettoria umana e musicale che non ha mai avuto bisogno di scendere a compromessi con l'industria culturale e con i gusti del pubblico, forte dell'intensità, della bellezza e dell'ineguagliabilità delle sue canzoni. In un'epoca in cui i fenomeni musicali del momento sono esposti sulle copertine delle riviste a cadenza mensile come fossero le nuove offerte del menù di Mc Donald's, per poi essere dimenticati il mese successivo; in cui bastano tre canzoni perchè un gruppo sia proiettato nell'Olimpo dei grandi, finchè non arriva un nuovo gruppo i cui elementi hanno la faccia più scazzata, i cardigan più lisi, i jeans più corti, le montature degli occhiali più vistose, gli arrangiamenti più trascurati, e ovviamente titoli più piacioni; in cui i dischi si montano con i tre singoli radiofonici che tutti conoscono e il resto sono canzoni di qualità molto inferiore; in un'epoca così superficiale, non si può resistere al fascino del Sr. Chinarro, alla sua apparente immobilità, alla sua continua ricerca personale, alla sua caparbietà nonostante l'ostracismo della corrente, all'intensità, intelligenza e profondità del suo linguaggio e delle sue immagini; alla sua sincera dedizione al proprio lavoro. La grandezza del Sr. Chinarro è nei suoi dischi e nelle sue canzoni perfette, dove non manca nulla e dove nulla è di troppo. Se dovessi fare un parallelismo con il mondo del cinema, allora penserei ad Aki Kaurismaki, anche lui quanto di meglio esiste nel cinema europeo attuale, e per gli stessi motivi: coerenza poetica, alta qualità media delle produzioni, sincerità, privilegio della nuda forza delle immagini. O parlando di arte, la mente corre al grande Antoni Tàpies.
Che poi, c'è da scommetterci: lo stile introverso, personale, sobrio, tremendamente originale di Antonio Luque finirà per influire, in maniera cangiante, sui futuri esponenti della scena musicale indipendente spagnola, che, in un modo o nell'altro, non potranno non fare i conti con lui - un po' come è successo nel Regno Unito con la figura di Jarvis Cocker, o in Italia con Fabrizio De Andrè.
Alla fine dei giochi, e paradossalmente, l'unico a non essere pienamente contento della carriera musicale del Sr. Chinarro è proprio Antonio Luque. Non c'è occasione in cui non ricordi al suo interlocutore la difficoltà di suonare, se non proprio di riconoscere, le canzoni dei suoi primi (sette) dischi (quasi tutti pubblicati con l'indipendente Acuarela), e la svolta che ha significato nel suo percorso il disco "El fuego amigo", del 2005, non tanto a livello di contenuti, quanto per qualità della e risorse impiegate nella registrazione. Indubbiamente, gli ultimi tre dischi suonano "meglio", se si vuole più pop, e se questo non è certamente un peggio (come purtroppo amano ragionare, piuttosto acriticamente, in molti, pensando che per fare le recensioni indie bisogna darsi un tono impiegando la stessa futile alterità modaiola dei gruppi recensiti), non è di per sè neanche un meglio, e allora fa tenerezza ascoltare Antonio Luque che quasi sembra giustificarsi per il suo passato più lo-fi:
"A mí me gustaría que Chinarro fuera un grupo con tres discos y que Ronroneando [l'ultimo disco] fuera el tercero. Quizás debería haber cambiado el nombre. Yo nunca fui rocker, ni mod, ni nada, y me inventé un grupo en el que me escondía haciendo letras en ocasiones demasiado raras. A algunos les siguen gustando, pero con la mayoría de las canciones de mis primeros discos me siento un poco ridículo. Sería un anacronismo si intentara tocarlas ahora".
Chiunque, a voler scovare nel passato, ritroverà gesti, parole, camicie, ragazze che faticherà a riconoscere, e proverà quel sentimento a metà tra la malinconia e il ridicolo che genera la visione di un rullino di foto uscito all'improvviso da un certo ripiano del salotto. E questa sensazione è puramente soggettiva, perchè non serve a nulla che gli altri ci rincuorino sulla bontà di quelle esperienze. Allo stesso modo, è giusto ed è normale che ad Antonio Luque non gliene importi nulla se ai suoi tifosi le vecchie canzoni piacciano ancora. Sul palco ci sale lui, e deve poter cantare quello che gli piace. Per la nostalgia dei fan ci sono sempre i dischi.
Nonostante ciò, non si può negare che il Sr. Chinarro ha sempre disseminato in tutti i suoi album, a partire dal primo, canzoni che meriterebbero a pieno titolo di essere inserite nella scaletta di ogni suo concerto (basti pensare a "El idilio" del 1998, che rimane una gemma ineguagliata). Per questo motivo, ieri sera, l'unico peccato di un concerto fantastico, teso, preciso, intenso, è stato l'assoluto oblio in cui il suo memorabile passato è stato relegato (a parte la monumentale "Quiromàntico" del bis). Dico peccato, perchè rimane la nostalgia, se non la curiosità, di immaginare quelle canzoni -che non si ascolteranno più dal vivo- suonate in maniera imperfetta in qualche fumosa sala da concerto di Siviglia, mentre tramontavano gli anni novanta e l'Andalusia non sapevamo neanche cosa fosse, intenti com'eravamo a scoprire come cazzo si arrivava a quella festa di diciott'anni all'Olgiata.