martedì 24 novembre 2009

Quando eravamo giovani sognavamo Masha Qrella

  
Quando eravamo giovani l'estate andavamo a Benicassim per il festival. Ci facevamo l'ultimo bagno a San Sebastiàn all'ora in cui la città si risvegliava, passavamo da casa a Pamplona per preparare le borse e le baguette con la tortilla, solcavamo la steppa aragonesa con la Golf blu ascoltando gli Hefner di We love the city, attraversavamo la Spagna e la Spagna attraversava noi, seguivamo il flusso delle altre macchine che a luglio scappavano verso sud, e all'ora di cena arrivavamo a Castellò, dove ci aspettava una casa, per qualcuno un letto, per altri un divano, o il tappeto. La mattina facevamo colazione con il latte e i biscotti, andavamo al mare a Benicassim, dormivamo, nuotavamo, leggevamo, giocavamo con Maria e Candela, aspettavamo le tre per attraversare il lungomare di Benicassim, con i suoi lampioni senza fine, e salire all'appartamento degli zii, sulla Torre. Arantxa cucinava, noi ci sedevamo a tavola, Ignacio mi chiedeva dell'Italia, i cugini si cambiavano il costume, Edoardo raccontava alle ragazze che faceva l'attore, le ragazze leggevano le riviste scandalistiche, poi mangiavamo fino a scoppiare. La cosa bella era che non importava di chi fosse la famiglia, importava sentirsene parte, anche se non ci eravamo mai visti prima, anche se era solo per una manciata di giorni, anche se non ci saremmo mai più rivisti. Dopo pranzo ci mettevamo in veranda, guardavamo la televisione, sfogliavamo i giornali, parlavamo dell'Osasuna, Arantxita rideva e diceva a Edoardo che assomigliava al Colate, il fidanzato di Paulina Rubio, le cuginette riposavano. Poi si facevano le sei, e allora ci cambiavamo, ci mettevamo i jeans e le magliette indie, salutavamo tutti e con la Golf andavamo ad inaugurare il festival.

Quando eravamo giovani compravamo le magliette arancioni di Belle&Sebastian non ufficiali dalla macchina di alcuni ragazzi nel parcheggio del festival di Benicassim. Arrivavamo ai concerti riposati, pasciuti, abbronzati, ridevamo degli inglesi emaciati e palliducci, della loro vita in campeggio, dei loro infradito e dei loro stupidi cappelli di paglia. Bevevamo birra in grandi bicchieri di plastica, seduti davanti ai Maximo Park, ci sbrigavamo per sentire le ultime note del Sr. Chinarro, aspettavamo il tramonto e gli Yo La Tengo (penso alla loro Tom Courtenay e mi vengono i brividi) sul prato davanti al palco centrale, parlando di progetti, di ricordi, del nulla. Mangiavamo quello che capitava, incontravamo amici, sentivamo freddo, ascoltavamo l'ultimo gruppo e poi, quando l'ambiente si faceva ostile, abbandonavamo il recinto, negandoci alle offerte di birre e pasticche dei punk disseminati nel cammino che portava al parcheggio. A casa, ruotavamo il letto, il divano e il tappeto, e Nikolas ci dava una lezione su come si lavano i denti.

Maria e Candela, le sue cugine, dopo aver scavato buche sul bagnasciuga per tutta la mattina, dopo aver mangiato l'ensaladilla rusa, dopo aver fatto la siesta,  prima di lasciarle -noi così grandi, fighi e con i capelli lunghi-, ci chiedevano una spilla in regalo. Una ciascuna. Il giorno dopo gliele portavamo, colorate, e sbagliavamo, perchè erano diverse, e a due bambine di quattro anni bisogna comprare le cose uguali, e allora una delle due ci rimaneva male, e il giorno dopo rimediavamo. Se restavamo a casa Edoardo cucinava la pasta alla carbonara per i cugini che ci avevano ospitato, gli veniva buonissima (come il pollo impanato, e le patate rosolate), però i navarri non erano abituati a mangiare pasta, figuriamoci alla carbonara, e allora dissimulavano a stento il loro gonfiore di stomaco, mentre noi ascoltavamo musica, uscivamo in terrazza, guardavo il mare, guardavamo avanti, lasciavamo che il vento ci scompigliasse i capelli sulla fronte, pensavamo al giorno dopo, ad agosto, agli esami di settembre, alle ragazze che ci aspettavano. Tornavamo al festival a sentire i Cure e i Lemonheads, un po' mi annoiavo perchè non ero lì per quello, le nuvole coprivano le montagne valenciane, ci stringevamo nelle felpe col cappuccio, Nikolas faceva ubriacare Edoardo, passavamo da un palco all'altro, non c'era un vero perchè dietro i nostri gesti, ma solo la consapevolezza di non avere una meta, perchè contava soprattutto quel che vedevamo e sentivamo durante il tragitto. L'importante era ricordarsi di lasciare le scarpe sul terrazzo prima di andare a dormire.

Quando eravamo giovani avevamo lo sguardo d'artista, osservavamo le persone, le montagne, i concerti, gli oggetti, le palme, poi chiudevamo gli occhi, li riaprivamo, e tutte quelle cose non le vedevamo più, ci sembravano diverse da come ce le ricordavamo, le vedevamo con occhi diversi, perchè giravamo intorno alla realtà, o forse la realtà girava intorno a noi, e noi eravamo i suoi registi, i suoi scrittori, i suoi fotografi. Non avevamo nostalgia del passato perchè il futuro cambiava ogni cinque minuti, come i gruppi sul palco, le uscite della carretera, con quei nomi curiosi di paesini di mare, che sapevano di paelle sulla spiaggia, fidanzate spagnole, kas limon, che magari invece erano dei posti squallidi, addolorati e pieni di vecchi, però ci confortava il mite desiderio di non doverlo scoprire mai. Credevamo nella possibilità di un incontro, nell'amore a prima vista, nei viaggi, nel piacere di poter fare qualcosa per primi, di poterlo raccontare, di lasciare la sabbia nella macchina, i costumi ad asciugare nella casa sulla Torre, il telefono in camera, il prosciutto fuori dal frigo, per quando tornavamo all'alba, affamati.


L'ultima sera, sul palco grande suonava Nick Cave. Era la prima volta da non so quanto tempo che si presentava in Spagna. Ormai svanita la commozione dei britannici per la notizia dell'irlandese che nel pomeriggio era stato trovato morto nella sua tenda, per il sole e per le pillole, l'unica cosa che contava per i figli d'Albione era fare il pieno di birre, bocadillos jamòn y queso, e prendere posto per il concerto dell'australiano, l'evento più atteso di tutto il festival. Io però lasciai lì i miei amici e me andai ("a fare un'etruscata, mi diverto di più" direbbe Arbasino), verso il più piccolo dei palchi, quello coperto, sotto il tendone. Pensavano che fossi pazzo a perdermi Nick Cave, ma sotto il tendone c'era la persona che stavo aspettando da quando eravamo saliti in macchina a Pamplona. Davanti a trenta persone (i disertori di Nick Cave, o semplici nordici capitati lì per sbaglio), c'era Masha Qrella che si preparava per il suo concerto. Avevo conosciuto Masha Qrella sulle pagine di The Wire durante l'autunno, quando -nel mio momento preferito della giornata- tornavo a casa dalle lezioni ed erano le sette, mettevo un disco, mi sdraiavo sul letto a sfogliare le riviste di musica e sognavo di andare ai festival estivi. In uno dei dischi che a volte arrivavano con la rivista inglese trovai I want you to know, rimasi fulminato, era una canzone che non smetteva mai di girarmi per la testa, una canzone d'amore e di rimpianti, disadorna e sincopata. Il manifesto della mia gioventù, scritto da qualcun altro. Era il periodo dell'indietronica, della scena tedesca, dei Notwist e dei Lali Puna, ma la musica di Masha Qrella non era così intellettuale, tutt'altro, era una manciata di lettere d'amore scritte con le drum machine, le tastiere colorate, le nuvole di Berlino. La ascoltavo e mi innamoravo della desolata dolcezza di quelle parole ("I want you to know my friend/it's where we started not where we end"), mi incuriosiva la sua storia nei Mina (peraltro un gruppo fantastico) e nei Contriva, mi perdevo nel suo ciuffo sulla fronte, che nelle foto le copriva gli occhi, la bocca, il viso. Masha Qrella si era inventata una carriera solista, al riparo nella sua Villa Qrella, lo studio di registrazione che aveva messo su a Berlino, pubblicando il primo disco (Luck, che conteneva anche la bellissima Hypersomnia) con la piccola Monika-Enterprise, per poi passare (con il seguente Unsolved Remained) alla Morr Music, l'etichetta più figa della mitteleuropa, l'ECM dell'indietronica.


Il sole tramontava su Benicassim ed io mi trovavo nel tendone di fronte a Masha Qrella, dopo che per tutto l'anno il sole era tramontato sulla mia stanza, mentre Unsolved Remained suonava senza pause. Come in sogno, Masha cantava con lo sguardo basso, nascosta dietro il ciuffo e la chitarra, un po' impacciata nel pronunciare certe parole, sorrideva allo sparuto pubblico, lo ringraziava per essere venuto, mentre io avrei voluto ringraziare lei per essere venuta. Dopo un paio di canzoni non ero più solo perchè anche i miei amici mi avevano raggiunto, delusi da Nick Cave, dalla folla oceanica, dal chiacchiericcio che accompagnava la sua voce grave. Neanche a dirlo rimasero sorpresi (incantati?) dal mio piccolo segreto. Restammo in silenzio per tutto il concerto. Quando terminò, mi avvicinai al palco, mi tolsi un peso dalla gola e le parlai. Dissi a Masha Qrella che ero venuto da Roma per vederla. Arrossì, sorrise, liberò la fronte dal ciuffo, mi mostrò una bocca che pur di baciarla Salomè le avrebbe fatto tagliare la testa, mi ringraziò, e mi dedicò il foglietto con la scaletta delle canzoni che aveva suonato, con il pennarello blu. Quel foglietto è ancora attaccato alla parete della mia stanza.


Quando eravamo giovani pensavamo che c'erano momenti che non sarebbero più tornati, ed avevamo ragione. Non siamo mai più tornati a Benicassim, non abbiamo più dormito nel salotto di Mikel a Castellò, non abbiamo più mangiato le polpette di Arantxa, non abbiamo più parlato di calcio con Ignacio, non abbiamo più riempito la Golf di sabbia, non abbiamo più fatto piani per il futuro, non ci siamo più stesi sul prato tra i bicchieri di plastica, non abbiamo più comprato magliette di Belle&Sebastian, non abbiamo più aspettato un anno intero pur di conoscere Masha Qrella. Eppure, non tutto si perde. Per un po' di tempo mi ero dimenticato di Masha Qrella, finchè quest'anno ha pubblicato un disco meraviglioso, Speak Low, nato da un bizzarro progetto commissionatole dalla Haus der Kulturen der Welt berlinese all'interno della rassegna "New York-Berlin", in cui ha interpretato con il suo costernato romanticismo, con la sua docile inquietudine, addirittura delle canzoni di Broadway di Kurt Weill e Frederick Loewe (ascoltare I talk to the trees per credere). Domenica sera Masha Qrella era a Roma e ad ascoltarla c'era ancora meno pubblico di quel pomeriggio a Benicassim. Fichissima, hipster da morire, il ciuffo, la voce, i jeans, la felpa con il cappuccio, gli occhi bassi, per un momento ho pensato che nulla fosse cambiato. Ho ritrovato quella sua aria imbronciata che ogni tanto si apriva in un sorriso, come quando si passeggia sotto un cielo grigio e all'improvviso si viene illuminati e riscaldati da uno squarcio di sole. Quel sorriso che mi ha regalato quando le ho raccontato del foglietto con le sue canzoni che ho ancora in camera, e mi ha detto che si ricordava di tutto, di me, del concerto, di quel luglio, di Benicassim, di Nick Cave - insomma, di quando eravamo giovani.

sabato 14 novembre 2009

L'arte di saper vivere fuori stagione



Un aspetto della cultura inglese, folk e un po' esoterico, che mi ha sempre affascinato, è il mite struggimento  per il passato svanito, il desiderio di rifugiarsi nella natura e di immergersi in un'esistenza quasi medievale, lontano dalle depredazioni della vita urbana. Ricordo il proprietario della casa londinese dove fui ospite un'estate di tanti anni fa, un uomo sulla cinquantina, ricco -lavorava in Borsa-, ironico, molto solo, che voleva cambiare lavoro e soprattutto non voleva raggiungere la famiglia ospite in Toscana di non so quale nobiluccio locale, perchè il suo sogno era un altro: passare le vacanze -se non la vita- nella vecchia casa semi-abbandonata di famiglia, sperduta nelle campagne del Somerset. Il suo era sia un desiderio geografico che temporale: un ritorno al passato, alla vita agreste, alle estati della sua infanzia. La sera giocavamo a backgammon nel salotto di casa, nel cuore del lussuosissimo borough of Westminster, e a me sembrava una follia che un uomo che possedeva un appartamento del genere -cinque piani in una delle zone più chic della città- mi raccontasse del suo bizzaro anelito di lasciare tutto e di tornare a vivere in quella casa di campagna, senza white goods, senza acqua calda, senza comodità. All'epoca pensavo fosse il solito inglese ricco ed eccentrico, un po' dandy un po' radical-chic, anche perchè gli indizi erano gravi, precisi e concordanti: l'aspetto trasandato, l'abbigliamento "ben malvestito", il taxi come unico mezzo di trasporto, il tappeto per le scale pieno di buchi, l'orgoglio di vivere nell'unica strada di Londra con i lampioni ancora ad olio (sic!), le stanze disadorne, il ritratto del '600 accanto alla scultura di metallo d'arte contemporanea, il bagno interamente rivestito di legno, una moglie che andava in giro a piedi nudi, le partite di calcio con i dipendenti a Battersea Park, il maggiordomo centroamericano. Solo ora capisco che sarebbe riduttivo definirlo in questo modo; in realtà, la sua inquietudine di vivere il mondo in maniera diversa, più semplice, era vera, e lui era semplicemente una persona fuori stagione.     


Non a caso, Out of season fu il titolo che l'anno successivo al mio breve passaggio londinese Beth Gibbons diede al suo disco solista così bello e così fuori moda. Un disco -e un'interprete- di cui sono stato innamorato per molto tempo (se alzo la testa, sulla parete ancora campeggia l'enorme poster della sua copertina), per la sua atmosfera così autunnale, rarefatta, costernata, così lontana eppure -nelle sfumature- così vicina a quella dei Portishead. Beth Gibbons abbandonò per vari anni il suo gruppo, il trip-hop, i lustrini, la trivialità del mercato musicale, la città, il rumore, e si ritirò in un mondo a parte, la campagna del Devon, a contatto con i misteri della natura, concentrata a scrivere canzoni esili, delicate e desolate come Mysteries, Drake (omaggio a un autore la cui eco è ben rintracciabile nel disco) o Sand River. Proprio la prima, un inno alla serenità dell'esilio bucolico, con i rumori del bosco in apertura, le parole estatiche e il video in dissolvenza introduce chi ascolta nell'umore folk del disco, prendendolo per mano come se stesse attraversando un campo abbandonato, al lato di un fiume, per  vedere l'alba:

"God knows how I adore life/when the wind turns on the shores lies another day/I cannot ask for more/And when the time bell blows my heart and I have scored a better day, well nobody made this war of mine/And the moments that I enjoy/A place of love and mystery/I'll be there anytime".

Out of season è un disco che riconcilia con la vita e allo stesso tempo ti fa sorgere lo spasimo di cambiarla, la vita, perchè è un disco sulla memoria, sul passato, sui ricordi, che non sono mera imitazione di luoghi e momenti già vissuti, ma sofferto simulacro di esperienze che continuano a vivere. La voce di Beth Gibbons è cangiante come lo sono i ricordi e le foglie in autunno, a funny time of year, e a volte è rotta, a volte limpida, a volte disperata ("there'll be no blossom on the trees/no blossom on the trees"), a volte sussurrante, a volte dolce, a volte soul, sempre in chiaroscuro;  la musica è arida, essenziale, tremendamente intima, a sprazzi illuminata da sfumature solitarie (i fiati, gli archi, un'armonica, un accenno d'elettronica), sempre evocativa. L'ascolto di Out of season è disagevole, solitario e favoloso, come lo è vivere in una casa di campagna semi-abbandonata, senza elettrodomestici ma con il bosco, il fiume, il cielo e i cavalli.

Beth Gibbons e il mio anfitrione londinese sono espressione di quel gusto tutto inglese per il passato, la natura, il rimpianto, la libertà di fuggire, di perdersi, di ricordare. Epigoni di un dandismo che trovava affermazione nell'uscire -con discrezione- dalla società, e soddisfazione nel farsi da questa desiderare. Penso a Gerald Brennan, lo scrittore inglese che nel 1919, a 27 anni, riparò in Andalusia, nel piccolo villaggio rurale di Yegen, nella sierra delle Alpujarras granadine. A Yegen vi rimase per parecchio tempo, conquistato dalla semplicità della gente e della vita, passando i suoi giorni a recuperare quell'educazione che pensava di aver perso per non essere andato all'università, e a scrivere. Di quell'esperienza, che oggi profuma di agriturismo per famiglie, ma che all'epoca era una piccola follia,  rimane traccia nel bellissimo South From Granada: Seven Years in an Andalusian Village, che Brennan scrisse ne 1957, quando era già tornato in patria.
 

In ogni caso, chi, nel mondo della musica inglese, ha incarnato questo spirito nel modo più radicale è stata senza dubbio Vashti Bunyan, che un bel giorno si stufò di essere una promessa del pop e si mise in cammino verso nord, per tornare sulla scena dopo più di trent'anni. Nel 1968, mentre gli intellettuali alle vongole che ancora ci perseguono ingrossavano la rive gauche (che Dio li maledica, tutti), Vashti Bunyan abbandonò la sua incompresa carriera pop londinese e iniziò il suo pellegrinaggio attraverso la Gran Bretagna, insieme al ragazzo di cui era innamorata, un cavallo e un cane (e presto anche un figlio), dormendo in un pullmino, con l'obiettivo di arrivare fino alle isole Ebridi, e lì fermarsi, al nord del nord della Scozia, della civiltà, della sua epoca. Il suo etereo disco d'esordio del 1970, Just Another Diamond Day, anch'esso parecchio fuori stagione, fu troppo fragile per il mondo reale, brillò per un momento ma si spense subito dopo. Le sue 100 copie furono presto risucchiate dall'oblio. Eppure, poco prima, la sua carriera era stata sul punto di prendere un'altra piega. Nel 1965 si era imbattuta, attraverso un'attrice amica della madre, nel potentissimo manager dei Rolling Stones, che l'aveva messa sotto contratto per rimpiazzare il buco lasciato dall'improvviso abbandono di Marianne Faithfull. A Vashti fu servita la fama su un piatto d'argento, sotto forma di una (in realtà noiosissima) canzone scritta da Mick Jagger e Keith Richards, Some things just stick in your mind, il suo primo singolo, con cui avrebe dovuto ritagliarsi un posto nella swinging London. Eppure, si vedeva lontano un miglio che quel vestito alla moda da pop singer non era adatto a una ragazza che inseguiva una carriera da cantatutrice, una rarità in quei tempi. E così, per quella "skinny art student with an old jumper with holes in it and a guitar slung over her shoulder", come si descrive su un numero di The Wire di qualche anno fa, giunse il momento di capire che doveva scappare da Londra.
 
Iniziò così il suo viaggio per il paese, i boschi, i fiumi, la pioggia, il vento, il silenzio, la gente dimenticata, tutte quelle cose che tu chiamale, se vuoi, emozioni (canzone che potrebbe perfettamente aver scritto Vashti Bunyan); senza soldi, senza beni, senza niente, senza pensieri a parte dar da mangiare al cavallo; lontano dalla città, dagli elettrodomestici, dalla gente; una storia, per me, così profondamente inglese, un lungo cammino d'abbandono e disincanto raccontato con felice nostalgia in Timothy Grub:
 
"They lay there and dreamed of the days
when they'd roam/Up and down the hills of the North
countryside/With the dogs eating buttercups on the 
waysude/And they'd wave all the cities goodbye".
 
Oggi, il mio anfitrione londinese continua a fare soldi in Borsa, a godersi la sua agiatezza e le sue abitudini, anche se probabilmente non ha più nessuno con cui giocare la notte a backgammon. Al massimo, quando non ce la fa più a soppportare gli elettrodomestici che lo circondano, il consumismo delle figlie, la mondanità della London Fashion Week organizzata dalla moglie, si rifugia nel basement, il suo regno di libri accatastati, strumenti abbandonati e confusione varia, e si lascia trasportare dal ricordo di certe estati trascorse al naturale nella vecchia casa di campagna. Beth Gibbons è tornata a fare ciò che l'ha resa famosa, infondendo della sua malinconia la durezza industriale, elettronica e spettrale del nuovo -splendido- disco dei Portishead, Third. Vashti Bunyan, dopo aver vagato per 24 anni tra Scozia ed Irlanda, nel 1992 si è fermata ad Edimburgo, dove tutt'ora vive con i tre figli e un nuovo marito (quell'altro si sarà perso per il cammino, magari in qualche pub).  Nel 2000 Diamond Day è stato ripubblicato, facendole conoscere, finalmente, il discreto successo che meritava. Qualche anno fa è uscito il suo secondo disco incantato,  Lookaftering, fedele testimonianza della sua vita super folk. 
 
La cosa che mi sorprende è che, nonostante siano passati più di trent'anni, nessuna traccia d'amarezza increspa la voce sussurrata di Vashti Bunyan. Ma in fondo, se decidi di vivere fuori stagione, il tempo è come se non passasse mai.

martedì 27 ottobre 2009

Preferisco il rumore del mar cantabrico #1 (San Sebastiàn)


C'è un filo bianco come la schiuma delle onde del mar cantabrico quando si infrangono contro gli scogli che unisce di salsedine, umidità e malinconia i lavori di tanti artisti del nord della Spagna. Da San Sebastiàn a Vigo, passando per Bilbao, Santander, Gijòn, si susseguono città sferzate da una pioggia eterna, cieli grigi squarciati da pomeriggi di sole che accecano i ragazzi seduti sul paseo maritimo, montagne che muoiono nel mare, porti (post)industriali che sembrano il riflesso della dirimpettaia costa inglese, trasformandola da miraggio geografico a influenza culturale reale. Il nord della Spagna è il posto più diverso dalla Spagna che possa esistere e per questo motivo ha generato negli ultimi quindici anni un movimento musicale indipendente che di spagnolo non ha nulla, ma che guarda invece -con un misto di sfida ed ammirazione- oltremanica, quando non direttamente oltreoceano. Solo per fare namedropping, da est a ovest hanno segnato (e molti continuano a segnare) la scena realtà come Tulsa, La buena vida, Family, El inquilino comunista, Mcenroe, Single, Brian Hunt, Mus, Nosotrash, Manta Ray, Nacho Vegas, Migala, Abraham Boba, una fenomenologia musicale con parecchi punti in comune che, se proprio si vuole tracciare una linea di continuità con il movimento indie spagnolo esploso negli anni novanta, più che competere con l'ambiente pop di Madrid o Barcellona sembra guardare direttamente all'Andalusia inquieta che faceva il verso ai New Order o agli Smiths con gruppi come Los Planetas o Sr. Chinarro. Prima o poi bisognerà parlarne di tutto questo, ma non ora.

Ora c'è una città che è la faccia più allegra del nord della Spagna, con la sua spiaggia infinita, il suo festival del cinema, i suoi bar con il flipper davanti al Kursaal, i negozi fighi tipo Loreak Mendian intorno alla cattedrale, le turiste inglesi con i leggings che si divertono al Bataplan; eppure è una città che non riesce a scrollarsi di dosso la sua inquietudine neanche quando ride, perchè le onde non smettono mai di infrangersi contro i pettini del vento di Chillida, il monte Igeldo fa calare la nebbia sulla spiaggia di Ondarreta, la Real Sociedad è scivolata in serie B, le ragazze basche piangono con le nuvole nere come sfondo, e le estati si trasformano in inverno nel giro di una canzone. Quella città sempre fuori stagione è San Sebastiàn e in un bel libro iper-romantico di qualche anno fa, "El invierno en Lisboa" (Seix Barral, 1987), ambientato -però- proprio nella capitale guipuzcoana, Antonio Muñoz Molina la descriveva così:

"Supongo que hay ciudades a las que se vuelve siempre igual que hay otras en las que todo termina, y que San Sebastiàn es de las primeras, a pesar de que cuando uno ve la desembocadura del rìo desde el ùltimo puente, en las noches de invierno, cuando mira las aguas que retroceden y el brìo de las olas blancas que avanzan como crines desde la oscuridad, tiene la sensaciòn de hallarse en el fin del mundo".

San Sebastiàn è uno stile di vita oltre che una città definitiva, la più affascinante di tutto il paese, dove tornare e tornare e tornare un'altra volta ancora, per rigenerarsi, perchè ha ragione Muñoz Molina, sembra la fine del mondo, ed invece non finisce un bel niente, perchè è piena di vita. Allo stesso tempo, è un luogo in cui giocare a sentirsi Tonio Kröger ("Io sto tra due mondi, di cui nessuno è il mio, e per questo la mia vita è un po' difficile"), in cui provare a fuggire da sè stessi, in cui indulgere nella contemplazione del muro bianco, sotto forma di mare perennemente increspato, di cui si sente sempre il fremito. Qualche anno fa un mio amico che lì ha una casa a cinque minuti dalla spiaggia mi spedì il disco che più di tutti incarna un certo spirito donostiarra, "Un soplo en el corazòn" dei Family, un duo assurdo che a metà degli anni novanta decise, più per gioco che per passione, di registrare un disco fondamentale per un'intera generazione e poi scomparire per sempre. Un soplo en el corazòn è il disco da ascoltare di inverno quando si ha nostalgia dell'estate appena trascorsa e si attende con trepidazione l'estate che deve arrivare, perchè le cose più belle e quelle più tristi succedono solo in quei tre mesi, e il resto del tempo sono solo esercizi spirituali per giovani adolescenti, in cui imparare la nobile arte del rimpianto e dell'illusione, come ne "El bello verano":

"Tengo ganas de fiesta, de que acabe el invierno, de volver a nadar en el mar. De soñar el verano en el que fuimos novios y poderle cambiar el final [..] Tu cara triste, mi amor de plata, podemos volver a empezar. Seremos delfines o ballenas azules viviendo en el fondo del mar".

Perchè San Sebastiàn, così come l'estate, o l'adolescenza, o il nord, sono come il diritto secondo Savigny, non hanno un'esistenza empirica per sè stesse, ma la loro essenza, piuttosto, è la vita stessa dell'uomo contemplata da un punto di vista speciale. Un disco che parla di San Sebastiàn è allora necessariamente un disco imperfetto, ingenuo, immaginativo, ma allo stesso tempo un disco "in cui non manca nulla e nulla è di troppo", come lo descrisse il mio amico basco, perchè così è la città che rappresenta. Lo stesso amico che, in una recente lettera, si lamentava per la sua incapacità di afferrare i dettagli di ciò che lo circonda, perchè "credo che arrivo alle cose, le capisco però rimango lì, non vado oltre, mi fermo alla superficie, non approfondisco e così quel poco che imparo non posso trasmetterlo", quando invece proprio lui mi ha trasmesso il dolce piacere di sedersi per ore e ore sul muro della spiaggia più estrema della città, quella di Gros, con un botellìn di birra dopo l'altro in mano, finchè il sole non tramonta dietro l'isola di Santa Clara, i surfisti più temerari sciamano verso i bar del lungomare, il vento autunnale soffia sempre più forte, e si fa l'ora della proiezione del prossimo pallosissimo film argentino al festival;  
oppure di ripararsi in certi gelidi pomeriggi d'inverno dietro le vetrate del Branka, il bar sotto la casa di Chillida e al lato del circolo del tennis, con un mentapoleo fumante tra le mani, le ragazze che distrattamente passano davanti e il giornale sportivo aperto sul tavolo di fòrmica; in un caso e nell'altro, sempre con lo sguardo fisso al mare, rivolto alle onde che arrivano da chissà dove per morire sulla spiaggia, ripensando alle estati mancate della nostra vita e avendo fiducia in quelle che verranno, ricordando gli amici del mare che -chissà perchè- il resto dell'anno non esistono, affondando nella nostalgia di certe melodie del gruppo più famoso mai uscito da San Sebastiàn, La buena vida, che, guardacaso, proprio in una canzone che si chiama "Verano" si auguravano che "Tal vez el mejor verano sea el que hoy me das".

domenica 18 ottobre 2009

1999, o l'anno in cui è cambiato il mondo




E' difficile staccarsi da 1999, l'ultimo disco dei catalani Love of Lesbian, che più che un disco è in realtà un piccolo romanzo di formazione, il resoconto -molto letterario- di un anno chiave nella storia d'amore post-adolescenziale tra due ragazzi di Barcellona. E' difficile staccarsi perchè è un disco trascinante, nostalgico, emozionante, così come emozionante è la voce di Santi Balmes, cantante e autore dei testi, che con le sue parole è come se ci mostrasse la parete piena di polaroid della sua stanza di dieci anni fa. E' difficile staccarsi perchè ognuno di noi ha vissuto il suo 1999, ed allora ad ascoltare certe storie di grida, concerti, frangette, dischi, questioni di famiglia, fughe e finestre rotte vengono in mente altre storie, questa volte vissute, che pero' non hanno avuto nemmeno la consolazione della memoria in un disco così bello. In un'intervista, a domanda banale ("¿Cuánto de autobiográfico tiene el disco?"), Balmes risponde da campione: Yo diría que un 70 por ciento es autobiográfico y el resto es fantasía, como me hubiera gustado que fueran las cosas en un momento dado ¿no?. Ha ragione: per quanto si può essere felici in un certo momento storico, non si perde mai la consapevolezza di poterlo essere ancora di più, e allora anche il passato -soprattutto in un disco- è bello ricordarselo in parte per quello che è stato e in parte per quello che sarebbe potuto essere.

Il passato dell'universo di Santi Balmes si apre con l'impattante immagine di un eterno ritorno sul luogo del delitto sentimentale. Allì donde solìamos gritar è il ritorno, dieci anni dopo, alle panchine sopra il porto industriale di Barcellona, dove Balmes andava a gridare con la sua ragazza quando si sentivano inquieti. Quelle grida si sentono ancora, così come quelle panchine ancora conservano tutti i versi di Heroes, che avevano inciso al buio e senza pensare,  "con las faltas de un chaval". Dodici canzoni e dodici polaroid dopo, il disco si chiude con 2009. Voy a romper las ventanas, ovvero la consapevolezza che per quanto tempo sia passato, è inutile provare a dimenticare, perchè tanto non è cambiato niente; che è ancora presto per  rinunciare, perchè, come dice anche un mio amico di Pamplona, la malinconia è la felicità di essere tristi; e che soprattutto, rispetto a quegli anni, non siamo mai cresciuti, e non ci siamo mai equilibrati (e possibilmente, non lo faremo mai). L'ultima immagine fa allora il paio estetico con la prima: non sono più grida che fendono l'aria, ma sassi che rompono finestre, vetri che piovono, ricordi che ritornano:

"Voy a romper las ventanas
para que lluevan cristales,
ven a romper las ventanas,
ven a gritar como antes,
ven a romper las ventanas
y hacer del caos un arte,
voy a romper tus ventanas
y voy a entrar como el aire.."
 

Dieci anni fa c'erano finestre ben precise che avrei voluto rompere, per poterci entrare come l'aria. Stanze da letto ben definite, con la moquette per terra e i vocabolari di greco e latino sugli scaffali. Universi di lentiggini da esplorare. Senza la forza visiva presente nel disco dei Love of Lesbian, descrissi il mio 1999 (proprio quell'anno!) in un libro che si potrebbe definire -Cortàzar non si offenderà- di "realismo fantastico", perchè raccontavo una storia vera che in realtà non era mai esistita, o meglio, forse una storia di fantasia che in realtà, per me, sì che era esistita. Che poi, quando si racconta una storia, soprattutto se è la propria storia, è davvero così importante sapere se è successa davvero? Ci saranno sempre delle cose che non si possono raccontare, ed altre che è meglio aggiungere. Lo stesso Santi Balmes, rispondendo a tutt'altra domanda, offre una lettura su questo tema della sincerità. Siccome ha scritto i primi tre dischi in inglese e gli ultimi tre in spagnolo (rinnegando la scelta di cantare in un'altra lingua come un errore che nessun gruppo dovrebbe commettere), gli chiedono che ruolo ha per lui il catalano, di fatto la sua vera lingua madre:
 
"El catalán es nuestra lengua materna, es lo que hablamos en la furgoneta. Yo aprendí a hablar castellano a los cinco años. El problema que tengo yo con el catalán, que quizás lo debería de superar, es que al ser mi lengua familiar, me pongo más serio. Con tu madre no hablas de lo que hiciste anoche... me cambia mucho la configuración psíquica cuando hablo en una u otra lengua, es una pasada".

Ci sono lingue in cui è più facile parlare di sè stessi, perchè non sono la nostra lingua. Ci sono storie in cui è più facile identificarsi, perchè non parlano di noi. Ci sono ricordi in cui è più facile riconoscersi, perchè non sono i nostri, ma quelli che avremmo voluto vivere. Mi ha detto un amico che la ragazza con cui dieci anni fa avrei voluto gridare si è sposata la settimana scorsa. Gli ho risposto che, allora, la settimana scorsa si è definitivamente conclusa un'epoca. Quell'epoca iniziata nel 1999, che doveva essere l'ultimo anno del mondo e che invece -ora capisco- per me, come per Santi Balmes, è stato solo l'ultimo anno di un certo mondo, di cui oggi non rimane nulla, se non la certezza di averlo vissuto. Meglio così; se domani ritornasse, non saprei più come viverlo.

domenica 4 ottobre 2009

Non arrivarono avvoltoi, perchè anche loro erano morti


Non è raro nè indolente fermarsi ad osservare, di tanto in tanto, la piccola biblioteca o la collezione di dischi o l'insieme delle immagini appese alle pareti della propria stanza e domandarsi che cosa lega tra loro quei nomi, quei titoli e quei volti che, come scriveva lo scrittore e filosofo messicano (ma nato a Firenze) Alejandro Rossi, per sè stessi non sono altro che "objetos sin historia, que nos rodean de soledad". Non è raro nè gratuito aprire gli scatoloni polverosi pieni di oggetti che ci si è portati dietro da una città lontana e domandarsi che cosa, al di là dei singoli oggetti, si è effettivamente preso, ed appreso, in quell'altro mondo, ormai scivolato via come spremuta d'arancia tra le mani. Non è raro nè nostalgico pensare alle carcasse che si sono disseminate in altri paesi, in altre vite, nel proprio passato e domandarsi che cosa pensava Antonio Luque quando nella pagina interna del suo primo disco (Sr. Chinarro) scriveva "no acudieron buitres, pues tambièn habìan muerto", e se aveva ragione.

Ciò che è raro e, in fondo, inutile, è dare delle risposte certe a queste domande. Meglio, molto meglio, lasciare che l'inquietudine ricostruisca il percorso a ritroso, limitandosi ad accompagnare i passi come il battito delle mani accompagna un flamenco gaditano. Meglio, molto meglio, lasciare che poco alla volta indizi confusi, associazioni fugaci e casualità esistenziali suggeriscano i nostri contorni, tracciando le linee verosimili, malinconiche e senza troppe ambizioni delle tante cose che ci sono passate per la testa e per le mani. Sempre Alejandro Rossi, nel suo imperdibile Manual del distraìdo (editore Anagrama, 1980), parlando di come affrontare proprio il suo libretto, ci offre una chiave di lettura molto più generale, applicabile non solo alla letteratura, ma ai viaggi, agli incontri, alla vita stessa: "Lèelo, si es posible, como yo lo escribì: sin planes, sin pretensiones còsmicas, con amor al detalle". D'altronde, quello di pensare che dietro a tutto ciò che ci circonda ci debba essere necessariamente un senso puntuale, che la nostra intelligenza è chiamata a disinnescare, pena una terribile e indifesa ignoranza, non è un tratto naturale di qualsiasi carattere; anzi, è più che legittimo non assegnare alcun significato profondo ai propri gesti e all'interpretazione dei gesti degli altri. Tuttavia, quando tale inquietudine latente esiste, essa costringe a interrogarsi criticamente su ogni aspetto della propria vita, dal film appena visto al silenzio di una ragazza lontana, dalla ricetta del salmorejo alla panchina del giocatore apparentemente più talentuoso della squadra. Questo morbo, di cui Rossi -che ci ha lasciato appena qualche mese fa- si confessa felice vittima ("Pero que soy una persona que piensa, lo puedo jurar. Todo el dìa, desde que me despierto, pensar es una actividad que practico con desesperaciòn y desgano"), lo stesso autore lo esprime attraverso le riflessioni di Georg Christoph Lichtenberg, scienziato, scrittore e filosofo tedesco del diciottesimo secolo:

"Uno de los rasgos màs singulares de mi caràcter es ciertamente la extraña supersticiòn que me lleva a extraer una significaciòn de cada cosa y en un dìa transformo a cien objetos en otros tantos oràculos".

Scorre dunque sotterraneo il riconoscimento che gli oggetti e le persone che ci attraggono e di cui ci appropriamo durante le varie fasi della vita si riflettono su di noi, e con i loro influssi contribuiscono ad orientarci verso una certa direzione, che solo apparentemente ci sembra di aver scelto. Avvicinarsi a un certo stile altro non è, dopo tanti pensieri, che il risultato della raccolta delle cose e delle persone che abbiamo trovato e, nel tempo, lasciato per strada, nella speranza di aver trovato e lasciato bene. A questo proposito, spiegava Julio Cortàzar al suo intervistatore durante una lunga puntata del 1977 di A fondo, il leggendario programma della TVE che in quegli anni aprì le porte della televisione ai più influenti scrittori di lingua spagnola di questo secolo, che se uno ha delle cose da dire e non le dice nel modo che sente essere l'unico modo per dirle, allora è come non averle dette o averle dette male. Questa è l'importanza di cercare e trovare il proprio stile, per immunizzarsi di fronte alla paura di non poter vivere tutto ciò che capita di interessante nel modo in cui si vorrebbe viverlo, per respingere l'inquietudine che raffiora quando ci si rende conto di non essere felici quanto si potrebbe esserlo, e spinge ad iniziare altri quattro libri quando quello che si sta leggendo, in realtà, non è che sia così noioso.
Tuttavia, questa foga di conoscere, di accumulare, di sperimentare, tanto in libreria come al bancone del bar, è l'unica strada percorribile per educare la propria sensibilità, pur accettando sin dal principio la premessa che la vita, come avverte Nacho Vegas in La pena o la nada, "es parte buscar placer, y parte hallar dolor", anche se tra il niente e il dolore è sempre preferibile il secondo. Perchè se alcune cose le abbiamo a portata di mano, altre ci accompagnano come ricordi e molte altre ancora sono invece solo delle carcasse, sulle quali neanche più volteggiano gli avvoltoi, perchè sono morti anche loro. Ma tutto ciò serve a darci uno stile, che non può che mutare ed evolversi al mutare ciò che ci circonda. Non a caso, con queste parole si conclude uno dei tanti brevi capitoli che formano Nocilla Dream, il sorprendente romanzo d'esordio, marcatamente postmoderno, che Agustìn Fernàndez Mallo, fisico e poeta galiziano di spiccato aspetto indie, ha pubblicato nel 2006:

"De ahì que el "yo" consista en una hipòtesis inamovible que al nacer se nos asigna y que hasta el final sin èxito intentamos demostrar".

Non a caso, perchè Nocilla Dream, pubblicato -coraggiosamente- in Italia da Neri Pozza con il titolo Il sogno della Nocilla (ovvero, l'autarchica Nutella spagnola), non è un romanzo ma un insieme di stralci, soprattutto iniziali, di storie vere e storie inventate in cui realtà e fantasia spesso si intrecciano, permettendo a volte di ricostruire i loro antecedenti o di immaginarsi il loro prosieguo, e altre volte no. Ovvero, nient'altro che la stessa fenomenologia di esperienze che si ripete nella vita. Coglie bene lo spirito di quest'opera bizzarra un articolo dell'Unità, secondo cui il lettore "si accorge, spaesato divertito sospettoso, che il mondo non è fatto di cose stabili ma dei significati che vengono dati di volta in volta alle cose". E infatti, "è davvero impossibile riassumere Il sogno della Nocilla, perchè le molte storie che Mallo racconta hanno senso solo in un insieme in cui la storia della prostituta che sta in un bordello al limite del deserto del Nevada, e quella del venditore di disegni per tombini, e quella dell'uomo che costruisce a Las Vegas un monumento forse geniale forse incomprensibile a Borges, combaciano tra loro solo come storie strappate: letteralmente lacerate come pezzi che per avere un senso devono unirsi ad altri pezzi di vita, ad altri frammenti di mondo". La conclusione è che Nocilla dream è "un disperato e euforico atto di amore verso il paesaggio di rovine lucenti del post-contemporaneo, un luogo ancora senza nome ma in cui già abitiamo tutti senza saperlo".

Il cerchio si chiude, perchè Fernàndez Mallo, nella concisa biografia che accompagna il risvolto del suo libro, si dichiara "fan de Sr. Chinarro", come lo sono io. Addirittura, in un articolo dello scorso maggio dedicato dal quotidiano Pùblico ai "musicisti che scrivono come poeti", lo stesso autore ritiene al riguardo che, sebbene si possano salvare frammenti di varie canzoni, non manca qualche esempio di canzone che può considerarsi interamente come un'autentica poesia: "no hay muchas, pero una canción que creo que funciona toda ella como poema es Escapa amanecer, de Sr. Chinarro", proseguendo poi l'articolo che "curiosamente, casi todos los poetas consultados han mencionado a Antonio Luque, el nombre real de Sr. Chinarro, como uno de los letristas -alguno lo llamó poeta- más destacados en la actualidad". Il cerchio si chiude, perchè Escapa amanecer, una delle canzoni meno conosciute e più dolenti del Sr. Chinarro e, allo stesso tempo, una delle mie preferite, guardacaso fa parte proprio del primo disco del gruppo di Antonio Luque, quello degli "avvoltoi che non arrivarono, perchè anche loro erano morti". Ho pensato tante volte a cosa vuol dire questa frase, osservando i cactus arsi dal sole fotografati nella copertina del disco, ascoltando la storia "strappata" del niño calamar, e per fortuna non l'ho ancora capito.

sabato 21 febbraio 2009

Le pastarelle della domenica


A parte non essere potuto andare per colpa della febbre alla festa di compleanno di una compagna di classe bulgara in terza media, una delle poche cose che mi piace rimpiangere -con una nostalgia non fine a sè stessa- è senza dubbio quella di essermi perso la Roma degli anni sessanta, la Roma delle "terrazze, le canzoni, le vacanze, le feste con i dischi e i whisky" che Christian De Sica ricorda, tra le altre cose, nella sua divertente autobiografia ("Figlio di papà", peraltro la lettura più godibile degli ultimi mesi - magari da leggere insieme a "Fratelli d'Italia", per provare a recuperare lo zeitgeist senza prendersi troppo sul serio ) e che spesso affiora nelle conversazioni con mio padre e i suoi amici. Come quella volta che, poco prima di partire per Madrid, un avvocato mi disse che la naturalezza con cui oggi noi ragazzi andiamo a vivere all'estero lo sorprende, perchè per la sua generazione Roma era il centro del mondo, il posto dove tutti volevano vivere, perchè il mondo passava per Roma e ognuno, a suo modo, voleva far parte di quell'ambiente ("quando avevo la tua età, il pomeriggio me ne andavo allo studio di Schifano, non c'aveva una lira, parlavamo, si faceva una pera, magari passavano altri artisti della pop art romana, mi faceva vedere i suoi quadri, e appena riuscivo a mettere insieme due lire me ne portavo a casa uno").

Ma la nostalgia non è solo per questo ambiente mondano, culturale e autenticamente pariolino che è venuto meno. E' che la vita, per lo meno a Roma, a volte dà l'idea di essersi complicata; si è involgarita, si è incafonita, si è voluta fare contemporanea, e non ce n'era motivo. Pian piano, i tempi moderni hanno assassinato l'illusione, l'ottimismo, il gusto della scoperta, e con loro sono diventate anacronistiche e prive d'incanto le passeggiate in centro della domenica mattina; la lettura dei giornali al caffè; le mignon comprate in pasticceria per il pranzo della domenica; lo stadio alle tre del pomeriggio; le conversazioni frivole all'ora dell'aperitivo; le sottoculture tutte. Molto più semplicemente, si sono smarrite -quando non stigmatizzate-quelle "care consuetudini" borghesi che De Sica simboleggia mirabilmente nelle "pastarelle della domenica" in un passaggio memorabile del suo libro, che vale la pena riportare per esteso:

"Sono stati anni divertenti. [..] Si respirava ancora un po' dell'energia del dopoguerra, quella dei film di Aldo Fabrizi: 'Ahò, è domenica, ce sta il pollo!'. Il pollo. Era l'Italia delle pastarelle della domenica [..].
Era un'Italia meravigliosa. Mio padre che mi portava da Ronzie Singer, una pasticceria che stava dove adesso c'è una jeanseria a piazza Colonna, percorrendo tutta via del Corso. Dove c'erano soltanto, come fosse il corso di una Torino allagata di sole romano, le cioccolaterie, i negozi di stoffe e di cappelli, le botteghe eleganti. Roba da fare invidia a Proust.
Oggi quella strada sembra un suk orientale, sporca, rumorosa, coatta. Allora c'era la Cioccolateria Fiat. Era una strada elegantissima. Mio padre mi portava con una carrozzella, scendevamo, compravamo la "treccia", era un pane dolce con i canditi, una specie di panettone, poi la portavamo a casa.
Quando si avvicinava il Natale papà comprava sempre il vischio per mia madre. Erano rituali semplici che scandivano il calendario di quell'Italia. Vischio è una parola che oggi non usa più nessuno. Si attaccava sopra la porta, come la palme della Domenica delle Palme.
Piccoli gesti propiziatori. Care consuetudini. Le pasterelle, la domenica. Che buone."

Anni in cui aveva senso leggere che "l'autista, Luciano di Nettuno, per nobilitarsi si faceva chiamare Vladimiro", o che un attore e uno scrittore americani, giovani e dannati (Montgomery Clift e Truman Capote), "si godevano la Roma dell'epoca, i ragazzi e i paparazzi, le contesse e le marchette, i pomeriggi e le notti nelle saune", o che Arbasino racconti il rifiuto di andare a una colazione mondana perchè "vado a Civitavecchia per mio conto, mi faccio un'etruscata, mi diverto di più..". Oggi nessuno si fa più chiamare Vladimiro per darsi un tono (a parte i travestiti); gli attori e scrittori americani passano le giornate con Veltroni; e le etruscate sono solo quelle che si fanno con la scuola.

E invece, sarebbe bello recuperare il senso delle tradizioni, della ritualità, del percorso. Lo spirito del tempo. Mi viene in mente la meravigliosa "Tatranky" degli Offlaga Disco Pax:

"Ed eccola qui l’anima degli anni ottanta cecoslovacchi: felicità e il suo video colorato che parla del sole e dell’amore italiano mentre in Boemia tutto è fermo, mentre in Boemia tutto è immobile. Ma anche ora c’è una tristezza assurda, nessuno si diverte, sarà che è lunedì sera, sarà che è gente fredda, sarà che non c’è il mare a Praga. E allora mi domando per quanto tempo ancora i bimbi boemi vorranno guardare i cartoni animati della talpa invece che quelli americani o giapponesi."

Ripartire dalla domenica, per esempio: se un tempo era giornata di ginocchia sbucciate, gelati dell'antica gelateria del corso e golf pastello degli adulti seduti con il Corriere della Sera a villa Balestra, a Piazza di Siena o al ristorante sul Tevere, oggi si poggia sulla confortante ritualità post-casualistica del futbol: la stampa sportiva, le scommesse calcistiche, i tramezzini, i racconti del nonno, la radio, il ponte duca d'aosta, la gente da stadio, la partita, le partite, la decadenza del secondo pomeriggio. Di più: recuperare il senso della città oggi, trovare -o creare- qualcosa di cui valga la pena essere parte, senza scadere nella pigra e adolescenziale riproposizione -più da museo delle cere che vintage- di vecchi movimenti del passato, e mandando a cagare la "generazione i-touch", come la chiama un mio amico colto, perchè ormai fa fatica anche premere un pulsante. E non pensare che si è sprecata anche l'opportunità del passaggio fin-de-siecle per organizzare una secessione.

Sarebbe troppo facile, e dunque approssimativo, identificare la causa del malessere nell'attuale Crisi. La crisi, anzi, non può che fare del bene in questo senso. Gli anni della secessione viennese odorano la dissoluzione dell'Impero, gli anni sessanta italiani sono figli del dopoguerra, così come la movida madrileña -come afferma il solito amico- non è altro che lo "sbrodolamento della guerra civile". Piuttosto ha ragione chi dice che il punto di non ritorno è stato il sessantotto. Lì si è incarognito, e un po' è finito, tutto quanto, perchè la gente ha iniziato a prendersi troppo sul serio. E nonostante il riflusso degli anni ottanta, le feste dei socialisti, il conto da trecento milioni in tartine lasciato da De Michelis all'Hotel Raphael, l'ottimismo non è più tornato. Il "modello Roma", la televisione commerciale e le pizze al taglio in centro hanno fatto il resto.

Anche De Sica la vede così, ed è interessante come questa visione abbia poi influito sulle sue scelte:

"C'era un ottimismo bestiale nel nostro Paese, fino al '68. Avventuroso, picaresco, fattivo. Dopo con gli anni di piombo è diventato una merda tutto, sono iniziate le denunce, le proteste, le lotte presto virate nel dolore di lugubri commemorazioni di defunti, ma fino a quel periodo l'Italia era piena di fiducia. [..] Ho cominciato facendo la Rivista, il Varietà, per un sessantottino come anagraficamente ero io, un'esperienza inconcepibile, una cosa totalmente contro lo spirito del tempo politicizzato, la cultura, l'impegno, le scelte, Il Capitale. Che noia tutto Marx, Lenin, Ho Chi Minh, Che Guevara. Preferivo le terrazze, i balli, le canzoni, le vacanze, le feste con i dischi e i whisky. Oggi sembra non solo ovvio, ma addirittura una scelta anticonformista. Ma allora, quasi me ne vergognavo. Eppure mi convincevano l'ironia, la leggerezza, la luce del Varietà. Mi chiedevo: 'Perchè debbo pensare anch'io che sia una merda soltanto per omologarmi agli altri?'. E così cominciai ad amare non solo i difetti di papà ma tutto quello che i giovani criticavano e detestavano".
La cosa che mi ha subito più incuriosito della Spagna è il suo candore, perchè qui il sessantotto non c'è stato, e gli anni sessanta yè-yè sono ora, o comunque sono finiti da poco. La società è ancora divisa in classi, che non si odiano tra loro perchè ognuna ha i suoi punti di riferimento a cui aspirare; i poveri non invidiano i ricchi e i ricchi non disprezzano i poveri perchè tutto quello che realmente importa -come è giusto che sia- è potersi sedere con gli amici nella terraza di tutta la vita con una birra e un pincho de tortilla; i ragazzi bene hanno la riga da una parte e vestono maglioni ralph lauren color pastello, e indossano mocassini tipo timberland; quelli che si considerano intellettuali e di sinistra possono permettersi di fare gli stessi discorsi che noi ci vergognavamo di aver fatto o aver sentito -tanto erano immaturi- alle assemblee di istituto a quindici anni (per intenderci, quello che può dire Jovanotti quando parla in tv); gli omosessuali visibili sono solo macchiette che portano a spasso per Chueca dei piccoli cagnetti; le signore perbene non lavorano e il pomeriggio escono a fare le commissioni con i gioielli, i capelloni, il trucco, i sorrisi; gli avvocati portano le camicie azzurre coi colletti bianchi, le cravatte di Hermès e i mocassini con le nappette; le vecchie carampane lasciano la pelliccia al cameriere all'ingresso del caffè e mentre aspettano il tè commentano il servizio che non è più quello di una volta; il sabato mattina i genitori portano i bambini in giro per il quartiere, dopo averli vestiti rigorosamente uguali, elegantissimi e all'inglese; e la domenica si comprano le pasterelle. A Barcellona, addirittura, si fa la fila per il pollo - come in un film di Aldo Fabrizi.
Quello che mi piace della Spagna è che qui uno come Pasolini non sarebbe servito a niente, non sarebbe mai diventato un maestro di pensiero, non sarebbe neanche morto, avrebbe lavorato in un ufficio tutta la vita e oggi sarebbe solo uno dei tanti vecchi che passano i pomeriggi gironzolando per le aiuole di Puerta del Sol e con gli avanzi della pensione toccano il pisello dei neri.

Perlomeno, rimane la tenerezza e l'ironia di leggere Arbasino, che in Fratelli d'Italia (apparso nel 1963) si gode (e racconta) gli anni migliori di Roma e dell'Italia da una prospettiva privilegiata (quella di chi non conosce il futuro), e può permettersi di far pronunciare a un amico americano questa reprimenda contro un certo lato pavido degli italiani, o se si vuole, contro le pastarelle della domenica:
"E certo, gli inglesi arrivano nei paesi più diversi e ci stanno fra mille avventure anche per anni, senza gemere di nostalgia per le fettuccine della nonna o per il caffè espresso. [..] Gli italiani, invece, mai avventure nè viaggi, e neanche grandi amicizie o grandi amori, grandi attaccamenti. Niente: a casa. Davvero è dal Satyricon che non si va più in giro on the road, non si ride, non si scherza, non si scopa, non si fa tardi; si mangia solo la roba preparata dalla mamma; si dorme solo nel proprio letto, e non lo si rifà perchè non è da maschietto, nè si è mai imparato su una barca o sotto una tenda. Mai un altrove interessante. Solo furbizie e drittate sotto casa. E dietro, solo il cibo. Se ci si allontana di qualche metro, subito il rimpianto dei dolcetti o il magone per i comodini... Mentre proprio in quei film americani più naifs dove sono tutti così 'butch', continuamente l'inconscio sfiora inquietudini che non riguardano il pasto in cucina e il caffè al bar e 'una persona che non dimenticherò mai: la nonna'...".

giovedì 5 febbraio 2009

L'uomo che ha quasi conosciuto Nacho Vegas

In un bizzarro film-conversazione del 1993 ("Despuès de tantos años"), il grande Michi Panero -intellettuale amateur, scrittore senza aver scritto un libro, dandy notturno della Madrid a cavallo degli anni settanta e ottanta, e molto altro- esclamava lapidario:
"Lo peor que se puede ser en este mundo es coñazo".

Più di dieci anni dopo, per celebrarne degnamente la morte -avvenuta nella solitudine di Astorga-, Nacho Vegas scrisse quella che senza dubbio è la sua canzone più ispirata e divertente, "El hombre que casi conociò a Michi Panero", un omaggio, un requiem, una farlocca (auto?)biografia di questo letterato dilettante e notorio viveur. Memorabile è l'inizio:
"Es hora de recapitular las hostias que me ha dado el mundo.
Hoy vendrán a oír mi último adiós. Bien.
Uno a uno van llegando y yo los recibo en batín.
Y unos me llaman chaval y otros me dicen caballero.
Alguno no se ha querido pronunciar.
Yo una vez tuve un amor, pero si he de ser sincero, dije "no" en el altar
y cuando digo no es no.
Fracasé una vez, fracasé diez mil
y aun así alzo mi copa hacia el cielo
en un brindis por el hombre de hoy y por lo bien que habita el mundo.
¡Mirad, las niñas van cantando! Shalalaralalá.."

E poi:

"Nunca fui en nada el mejor, tampoco he sido un gran amante.
Más de una lo querrá atestiguar.
Pero si algo hay capital, algo de veras importante,
es que me voy a morir
y cuando digo voy es que voy.
Lo he pasado bien, y casi conocí enuna ocasión a Michi Panero,
y es bastante más de lo que jamás
soñaríais en mil vidas.
¡Mirad, las niñas van cantando! Shalalaralalá..".

A suo modo, Nacho Vegas sembra voler emulare il più giovane dei Panero, seguendone le orme sul terreno dell'auto-ironia, della dannazione, del disprezzo per i birignao degli intellettuali, per il rifiuto di qualsiasi etichetta - come quella di artista di culto (in un'intervista a El Paìs-Madrid del passato sabato, rilasciata per promozionare il trionfale trittico di concerti che si apprestava a dare nella capitale, quando gli chiedono "Eso de ser artista de culto, constituye una responsabilidad muy fatigosa?", il rocker di Gijòn, scrollandosi le spalle, risponde così: "Ése es un factor coyuntural, pero carezco de tal vocación. Supongo que si Dylan irrumpiera ahora con esos discos de letras densas y canciones largas también lo catalogarían como artista de culto. No me parece mal que me lo digan, pero procuro centrarme en hacer buenas canciones") o di intellettuale della canzone ("Es un rockero 'cultureta'?", gli domandano. "La literatura es una influencia con un peso específico importante entre la gente de mi generación, pero no me gustaría que me consideraran así. Pessoa puede asomar por mis discos igual que afloran las conversaciones que escucho en los bares. [..]; si te llaman 'cultureta', es que algo estás haciendo mal", risponde).

Ma c'è un versante su cui Nacho Vegas non è emulo di nessuno ma maestro di tutti, ed è l'arte di scrivere canzoni che durano sette minuti, non contengono ritornelli, costeggiano il melodramma e nonostante tutto viene voglia di fischiettarne la melodia come se fossero dei successi pop radiofonici. D'altronde, il mestiere del musicista è schematico: raccontare una storia, accompagnarla con la musica, interpretarla con la voce - e Vegas è scrittore, musicista e interprete eccellente. Al di là del ciuffo, degli occhiali da sole, delle droghe, della cantante bionda col cognome danese, dell'entusiasmo per il nuovo movimento indie spagnolo, si tratta di un autore come ce ne sono pochi al mondo (Jeff Tweedy, magari). Se ho detto che Antonio Luque è il Morrissey iberico, allora Nacho Vegas è la prova vivente di cosa sarebbe successo se invece che a Sheffield Jarvis Cocker fosse nato nelle Asturie. Stessa teatralità, stessa voce seducente, stessi testi densi ed eleganti, stesso disincanto nei confronti del successo, stessa ubiquità culturale (musica, video, letteratura), e un ultimo disco -El manifiesto desastre- che altro non è che la stessa presa di coscienza, torturata eppure non pessimista, della fatuità della fama, della felicità, dell'amore che "l'uomo con le stesse iniziali di Gesù Cristo" aveva scoperto nel suo disco più personale e probabilmente più bello (This is Hardcore).

Con queste premesse, il concerto non poteva che essere impeccabile. Nonostante i deplorevoli tentativi del pubblico spagnolo di trasformare ogni brano in un coro da stadio, ciò che colpisce e mette i brividi è l'intimità delle storie che Nacho Vegas racconta: ogni canzone è in realtà una confessione, ti guarda negli occhi e richiede la massima empatia. Vegas non pone nessuno schermo tra lui e chi lo ascolta, è come se non stesse cantando su un palco ma fosse appoggiato al bancone di un bar, con un bicchiere di patxaràn mezzo pieno in una mano, avvolto dal fumo dell'ennesima sigaretta. E questa vulnerabilità si manifesta in tutta la sua grazia nella manciata di canzoni che affronta da solo -lui, la chitarra e la penombra- mentre il resto del gruppo lo guarda come se fosse un profeta anabattista: lo splendore di quelle note, di quelle parole, di quei gesti, probabilmente deriva dallo splendore del mar cantabrico, che non si quieta mai ("Deja que hablen, que yo prefiero oìr las cosas de la mar", canta ne "El salitre"), ma soprattutto arde del desiderio di imparare a guardare le cose con distanza e prospettiva, prendendosi sul serio ma con un sorriso, perchè nella vita si può essere di tutto tranne che un coñazo, e allora ci si può permettere anche dei versi come questi, senza essere un poeta, ma solo un genio:

"Y dìme, si ha salido el sol y no es para los dos,
entonces para quièn?
O si hoy no aùlla el viento por los dos,
entonces por quièn?
Como puedo quererte bien
si yo soy mi proprio enemigo?
Y como recomenzar
cuando hay tanto ayer aquì, en mì?

Podemos ir y preguntarle a la mar
para que nos responda con rugidos,
para que nos diga la verdad".

domenica 11 gennaio 2009

Inno ad Antonio Luque, il Sr. Chinarro ("Y en cualquier desfile, mi paso cambiado siempre irà")


Sono passati quindici anni e dieci album dall'esordio discografico di Antonio Luque con lo pesudonimo del Sr. Chinarro e, come lui stesso racconta in un'intervista a El Paìs-Madrid (concessa in occasione del concerto di ieri sera nella capitale spagnola), il suo graduale incremento di successo lo ha colto un po' di sorpresa ("Noté que, de repente, empezaba a venir más gente a los conciertos y que recibía más atención en los medios. Pero todo en una escala normal, no me he hecho rico ni muchísimo menos"). In realtà, l'unica cosa che veramente coglie di sorpresa, è pensare a quanto l'autore sevillano sia, tutt'ora, sottovalutato, tanto in patria come all'estero. Perchè una cosa va detta subito: se Morrissey fosse nato a Siviglia, si chiamerebbe Antonio Luque. E d'altronde, il mondo si divide in due in categorie: chi ama il Sr. Chinarro, e chi non lo conosce. Tertium non datur.

In questi anni, soprattutto Rockdelux -la rivista spagnola Bibbia della scena musicale (più o meno) indipendente, che lo ha sempre portato in palmo di mano- ha contribuito a formare il culto sotterraneo per Antonio Luque, le sue canzoni lineari, il suo tono di voce grave, i suoi testi peculiari; a farlo diventare un autore di riferimento per un'intera generazione cresciuta con Radio Nacional 3; a creare un vero e proprio mito intorno alla sua figura introversa, lontana dai centri mediatici del paese, affatto piaciona (tra gli altri, Agustìn Fernàndez Mallo -il più importante caso letterario spagnolo degli ultimi anni con l'interessante e post-moderno "Nocilla dream"- dichiara di essere un suo fan già nella quarta di copertina del suo libro, come se indossasse una spilla sul cardigan). Ricordo una sua intervista alla televisione in cui diceva che la gente a volte si sorprende per la sua ordinarietà quando lo incontra, magari su un palco, per la prima volta, ma che lui è fatto così e non ha intenzione di cambiare, perchè non c'è bisogno di avere un aspetto da musicista per essere un musicista. In effetti, Luque sembra uno che lavora in un negozio di dischi, piuttosto che uno che i dischi -meravigliosi- li compone. E non è un caso che fino a pochi anni e dischi fa, ancora lavorasse in una fabbrica vicino Malaga, dove orgogliosamente vive, a due passi dal mare.

Senza esagerare, ho sempre pensato che Sr. Chinarro è quanto di meglio esiste nella musica europea attuale. Questo per l'altissima qualità media delle sue produzioni, per il costante miglioramento che cela ogni nuovo lavoro, per una traiettoria umana e musicale che non ha mai avuto bisogno di scendere a compromessi con l'industria culturale e con i gusti del pubblico, forte dell'intensità, della bellezza e dell'ineguagliabilità delle sue canzoni. In un'epoca in cui i fenomeni musicali del momento sono esposti sulle copertine delle riviste a cadenza mensile come fossero le nuove offerte del menù di Mc Donald's, per poi essere dimenticati il mese successivo; in cui bastano tre canzoni perchè un gruppo sia proiettato nell'Olimpo dei grandi, finchè non arriva un nuovo gruppo i cui elementi hanno la faccia più scazzata, i cardigan più lisi, i jeans più corti, le montature degli occhiali più vistose, gli arrangiamenti più trascurati, e ovviamente titoli più piacioni; in cui i dischi si montano con i tre singoli radiofonici che tutti conoscono e il resto sono canzoni di qualità molto inferiore; in un'epoca così superficiale, non si può resistere al fascino del Sr. Chinarro, alla sua apparente immobilità, alla sua continua ricerca personale, alla sua caparbietà nonostante l'ostracismo della corrente, all'intensità, intelligenza e profondità del suo linguaggio e delle sue immagini; alla sua sincera dedizione al proprio lavoro. La grandezza del Sr. Chinarro è nei suoi dischi e nelle sue canzoni perfette, dove non manca nulla e dove nulla è di troppo. Se dovessi fare un parallelismo con il mondo del cinema, allora penserei ad Aki Kaurismaki, anche lui quanto di meglio esiste nel cinema europeo attuale, e per gli stessi motivi: coerenza poetica, alta qualità media delle produzioni, sincerità, privilegio della nuda forza delle immagini. O parlando di arte, la mente corre al grande Antoni Tàpies.

Che poi, c'è da scommetterci: lo stile introverso, personale, sobrio, tremendamente originale di Antonio Luque finirà per influire, in maniera cangiante, sui futuri esponenti della scena musicale indipendente spagnola, che, in un modo o nell'altro, non potranno non fare i conti con lui - un po' come è successo nel Regno Unito con la figura di Jarvis Cocker, o in Italia con Fabrizio De Andrè.
Alla fine dei giochi, e paradossalmente, l'unico a non essere pienamente contento della carriera musicale del Sr. Chinarro è proprio Antonio Luque. Non c'è occasione in cui non ricordi al suo interlocutore la difficoltà di suonare, se non proprio di riconoscere, le canzoni dei suoi primi (sette) dischi (quasi tutti pubblicati con l'indipendente Acuarela), e la svolta che ha significato nel suo percorso il disco "El fuego amigo", del 2005, non tanto a livello di contenuti, quanto per qualità della e risorse impiegate nella registrazione. Indubbiamente, gli ultimi tre dischi suonano "meglio", se si vuole più pop, e se questo non è certamente un peggio (come purtroppo amano ragionare, piuttosto acriticamente, in molti, pensando che per fare le recensioni indie bisogna darsi un tono impiegando la stessa futile alterità modaiola dei gruppi recensiti), non è di per sè neanche un meglio, e allora fa tenerezza ascoltare Antonio Luque che quasi sembra giustificarsi per il suo passato più lo-fi:

"A mí me gustaría que Chinarro fuera un grupo con tres discos y que Ronroneando [l'ultimo disco] fuera el tercero. Quizás debería haber cambiado el nombre. Yo nunca fui rocker, ni mod, ni nada, y me inventé un grupo en el que me escondía haciendo letras en ocasiones demasiado raras. A algunos les siguen gustando, pero con la mayoría de las canciones de mis primeros discos me siento un poco ridículo. Sería un anacronismo si intentara tocarlas ahora".

Chiunque, a voler scovare nel passato, ritroverà gesti, parole, camicie, ragazze che faticherà a riconoscere, e proverà quel sentimento a metà tra la malinconia e il ridicolo che genera la visione di un rullino di foto uscito all'improvviso da un certo ripiano del salotto. E questa sensazione è puramente soggettiva, perchè non serve a nulla che gli altri ci rincuorino sulla bontà di quelle esperienze. Allo stesso modo, è giusto ed è normale che ad Antonio Luque non gliene importi nulla se ai suoi tifosi le vecchie canzoni piacciano ancora. Sul palco ci sale lui, e deve poter cantare quello che gli piace. Per la nostalgia dei fan ci sono sempre i dischi.
Nonostante ciò, non si può negare che il Sr. Chinarro ha sempre disseminato in tutti i suoi album, a partire dal primo, canzoni che meriterebbero a pieno titolo di essere inserite nella scaletta di ogni suo concerto (basti pensare a "El idilio" del 1998, che rimane una gemma ineguagliata). Per questo motivo, ieri sera, l'unico peccato di un concerto fantastico, teso, preciso, intenso, è stato l'assoluto oblio in cui il suo memorabile passato è stato relegato (a parte la monumentale "Quiromàntico" del bis). Dico peccato, perchè rimane la nostalgia, se non la curiosità, di immaginare quelle canzoni -che non si ascolteranno più dal vivo- suonate in maniera imperfetta in qualche fumosa sala da concerto di Siviglia, mentre tramontavano gli anni novanta e l'Andalusia non sapevamo neanche cosa fosse, intenti com'eravamo a scoprire come cazzo si arrivava a quella festa di diciott'anni all'Olgiata.