Non è raro nè indolente fermarsi ad osservare, di tanto in tanto, la piccola biblioteca o la collezione di dischi o l'insieme delle immagini appese alle pareti della propria stanza e domandarsi che cosa lega tra loro quei nomi, quei titoli e quei volti che, come scriveva lo scrittore e filosofo messicano (ma nato a Firenze) Alejandro Rossi, per sè stessi non sono altro che "objetos sin historia, que nos rodean de soledad". Non è raro nè gratuito aprire gli scatoloni polverosi pieni di oggetti che ci si è portati dietro da una città lontana e domandarsi che cosa, al di là dei singoli oggetti, si è effettivamente preso, ed appreso, in quell'altro mondo, ormai scivolato via come spremuta d'arancia tra le mani. Non è raro nè nostalgico pensare alle carcasse che si sono disseminate in altri paesi, in altre vite, nel proprio passato e domandarsi che cosa pensava Antonio Luque quando nella pagina interna del suo primo disco (Sr. Chinarro) scriveva "no acudieron buitres, pues tambièn habìan muerto", e se aveva ragione.
Ciò che è raro e, in fondo, inutile, è dare delle risposte certe a queste domande. Meglio, molto meglio, lasciare che l'inquietudine ricostruisca il percorso a ritroso, limitandosi ad accompagnare i passi come il battito delle mani accompagna un flamenco gaditano. Meglio, molto meglio, lasciare che poco alla volta indizi confusi, associazioni fugaci e casualità esistenziali suggeriscano i nostri contorni, tracciando le linee verosimili, malinconiche e senza troppe ambizioni delle tante cose che ci sono passate per la testa e per le mani. Sempre Alejandro Rossi, nel suo imperdibile Manual del distraìdo (editore Anagrama, 1980), parlando di come affrontare proprio il suo libretto, ci offre una chiave di lettura molto più generale, applicabile non solo alla letteratura, ma ai viaggi, agli incontri, alla vita stessa: "Lèelo, si es posible, como yo lo escribì: sin planes, sin pretensiones còsmicas, con amor al detalle". D'altronde, quello di pensare che dietro a tutto ciò che ci circonda ci debba essere necessariamente un senso puntuale, che la nostra intelligenza è chiamata a disinnescare, pena una terribile e indifesa ignoranza, non è un tratto naturale di qualsiasi carattere; anzi, è più che legittimo non assegnare alcun significato profondo ai propri gesti e all'interpretazione dei gesti degli altri. Tuttavia, quando tale inquietudine latente esiste, essa costringe a interrogarsi criticamente su ogni aspetto della propria vita, dal film appena visto al silenzio di una ragazza lontana, dalla ricetta del salmorejo alla panchina del giocatore apparentemente più talentuoso della squadra. Questo morbo, di cui Rossi -che ci ha lasciato appena qualche mese fa- si confessa felice vittima ("Pero que soy una persona que piensa, lo puedo jurar. Todo el dìa, desde que me despierto, pensar es una actividad que practico con desesperaciòn y desgano"), lo stesso autore lo esprime attraverso le riflessioni di Georg Christoph Lichtenberg, scienziato, scrittore e filosofo tedesco del diciottesimo secolo:
"Uno de los rasgos màs singulares de mi caràcter es ciertamente la extraña supersticiòn que me lleva a extraer una significaciòn de cada cosa y en un dìa transformo a cien objetos en otros tantos oràculos".
Scorre dunque sotterraneo il riconoscimento che gli oggetti e le persone che ci attraggono e di cui ci appropriamo durante le varie fasi della vita si riflettono su di noi, e con i loro influssi contribuiscono ad orientarci verso una certa direzione, che solo apparentemente ci sembra di aver scelto. Avvicinarsi a un certo stile altro non è, dopo tanti pensieri, che il risultato della raccolta delle cose e delle persone che abbiamo trovato e, nel tempo, lasciato per strada, nella speranza di aver trovato e lasciato bene. A questo proposito, spiegava Julio Cortàzar al suo intervistatore durante una lunga puntata del 1977 di A fondo, il leggendario programma della TVE che in quegli anni aprì le porte della televisione ai più influenti scrittori di lingua spagnola di questo secolo, che se uno ha delle cose da dire e non le dice nel modo che sente essere l'unico modo per dirle, allora è come non averle dette o averle dette male. Questa è l'importanza di cercare e trovare il proprio stile, per immunizzarsi di fronte alla paura di non poter vivere tutto ciò che capita di interessante nel modo in cui si vorrebbe viverlo, per respingere l'inquietudine che raffiora quando ci si rende conto di non essere felici quanto si potrebbe esserlo, e spinge ad iniziare altri quattro libri quando quello che si sta leggendo, in realtà, non è che sia così noioso.
Tuttavia, questa foga di conoscere, di accumulare, di sperimentare, tanto in libreria come al bancone del bar, è l'unica strada percorribile per educare la propria sensibilità, pur accettando sin dal principio la premessa che la vita, come avverte Nacho Vegas in La pena o la nada, "es parte buscar placer, y parte hallar dolor", anche se tra il niente e il dolore è sempre preferibile il secondo. Perchè se alcune cose le abbiamo a portata di mano, altre ci accompagnano come ricordi e molte altre ancora sono invece solo delle carcasse, sulle quali neanche più volteggiano gli avvoltoi, perchè sono morti anche loro. Ma tutto ciò serve a darci uno stile, che non può che mutare ed evolversi al mutare ciò che ci circonda. Non a caso, con queste parole si conclude uno dei tanti brevi capitoli che formano Nocilla Dream, il sorprendente romanzo d'esordio, marcatamente postmoderno, che Agustìn Fernàndez Mallo, fisico e poeta galiziano di spiccato aspetto indie, ha pubblicato nel 2006:
"De ahì que el "yo" consista en una hipòtesis inamovible que al nacer se nos asigna y que hasta el final sin èxito intentamos demostrar".
Non a caso, perchè Nocilla Dream, pubblicato -coraggiosamente- in Italia da Neri Pozza con il titolo Il sogno della Nocilla (ovvero, l'autarchica Nutella spagnola), non è un romanzo ma un insieme di stralci, soprattutto iniziali, di storie vere e storie inventate in cui realtà e fantasia spesso si intrecciano, permettendo a volte di ricostruire i loro antecedenti o di immaginarsi il loro prosieguo, e altre volte no. Ovvero, nient'altro che la stessa fenomenologia di esperienze che si ripete nella vita. Coglie bene lo spirito di quest'opera bizzarra un articolo dell'Unità, secondo cui il lettore "si accorge, spaesato divertito sospettoso, che il mondo non è fatto di cose stabili ma dei significati che vengono dati di volta in volta alle cose". E infatti, "è davvero impossibile riassumere Il sogno della Nocilla, perchè le molte storie che Mallo racconta hanno senso solo in un insieme in cui la storia della prostituta che sta in un bordello al limite del deserto del Nevada, e quella del venditore di disegni per tombini, e quella dell'uomo che costruisce a Las Vegas un monumento forse geniale forse incomprensibile a Borges, combaciano tra loro solo come storie strappate: letteralmente lacerate come pezzi che per avere un senso devono unirsi ad altri pezzi di vita, ad altri frammenti di mondo". La conclusione è che Nocilla dream è "un disperato e euforico atto di amore verso il paesaggio di rovine lucenti del post-contemporaneo, un luogo ancora senza nome ma in cui già abitiamo tutti senza saperlo".
Il cerchio si chiude, perchè Fernàndez Mallo, nella concisa biografia che accompagna il risvolto del suo libro, si dichiara "fan de Sr. Chinarro", come lo sono io. Addirittura, in un articolo dello scorso maggio dedicato dal quotidiano Pùblico ai "musicisti che scrivono come poeti", lo stesso autore ritiene al riguardo che, sebbene si possano salvare frammenti di varie canzoni, non manca qualche esempio di canzone che può considerarsi interamente come un'autentica poesia: "no hay muchas, pero una canción que creo que funciona toda ella como poema es Escapa amanecer, de Sr. Chinarro", proseguendo poi l'articolo che "curiosamente, casi todos los poetas consultados han mencionado a Antonio Luque, el nombre real de Sr. Chinarro, como uno de los letristas -alguno lo llamó poeta- más destacados en la actualidad". Il cerchio si chiude, perchè Escapa amanecer, una delle canzoni meno conosciute e più dolenti del Sr. Chinarro e, allo stesso tempo, una delle mie preferite, guardacaso fa parte proprio del primo disco del gruppo di Antonio Luque, quello degli "avvoltoi che non arrivarono, perchè anche loro erano morti". Ho pensato tante volte a cosa vuol dire questa frase, osservando i cactus arsi dal sole fotografati nella copertina del disco, ascoltando la storia "strappata" del niño calamar, e per fortuna non l'ho ancora capito.
Nessun commento:
Posta un commento