giovedì 25 dicembre 2008

La distanza adeguata (Nacho Vegas e Christina Rosenvinge)


Interrogato sul motivo per il quale normalmente sceglie di scrivere canzoni che ritraggono il momento in cui una relazione si rompe e non quello che la rende speciale (Rockdelux 268), Nacho Vegas -indubbiamente il cantautore spagnolo più carismatico in circolazione (insieme ad Antonio Luque, alias Sr.Chinarro)- risponde in maniera vera e sincera, spiegando che la creazione artistica sorge dal contrasto e dal mistero, mentre i momenti felici non sono fatti per essere raccontati, ma solo per essere vissuti:

"Cuando te encuentras en un momento bueno dentro de una relaciòn, de lo que disfrutas es de cierta armonia, parece que al fin las cosas encajan. Y yo es lo que quiero, como cualquier hijo de vecino, pero eso no provocarà en mì la urgencia de escribir una canciòn. Las canciones nacen del caos, del desorden, de los sentimientos extremos, de todo aquello que no alcanzas a comprender".

Questa poetica malinconica trova piena conferma nell'ultimo, bellissimo disco del rocker asturiano,"El Manifiesto desastre", dove ci si concentra su quello che ci si lascia dietro piuttosto che su quello che si cerca, su quello che si perde piuttosto che su quello che s'incontra. Già l'intensa penombra della copertina -la posa pensosa, il ciuffo illuminato, la sigaretta che pende dalle labbra- sembra suggerire che per poter utilizzare il passato in una canzone c'è bisogno di una certa distanza, e che questo disco in chiaroscuro non è altro che un viaggio a ritroso nel tempo, un modo per smettere di leccarsi le ferite e poter finalmente guardare avanti, o perlomeno al presente. E il presente di Nacho Vegas è radioso, nel pieno di una relazione con la più incantevole e curiosa delle protagoniste della scena indie spagnola, quella Christina Rosenvinge che ogni anno e ogni disco che passa si fa sempre più affascinante.

D'altronde, se avesse voluto parlare di lei, il biondo di Gijòn non avrebbe inaugurato il disco -in "Dry Martini, S.A."- con la mite rassegnazione di queste parole:

"Hablo solo, bebo tè, tomo notas para hacer de mi vida sin ti algo habitable.
Leo entera La Razòn, hoy desarmè la televisiòn, tarareo una canciòn insoportable.
Asì pues, cuando no tengas nada que hacer y yo pase por tu cabeza,
nadie podrà oìrte, asì que piensa en mì como si me quisieras".
Ma d'altronde, se lo si può vivere, non c'è bisogno di riflettere in una canzone il momento speciale che attraversa una relazione. Ci sarà tempo per trasformarlo in un ricordo dolente.

A pochi mesi di distanza, si incontra, e non per caso, lo stesso chiaroscuro sentimentale nell'ultimo lavoro di Christina Rosenvinge, "Tu labio superior", forse il disco più coraggioso, intelligente e viscerale in tutta la carriera della bionda madrileña di famiglia danese - che ormai si è scrollata di dosso anche le ultime diffidenze che si portava dietro dai suoi teneri esordi pop di fine anni ottanta. La Rosenvinge adesso è un'interprete matura, impreziosita da una bellezza disarmante, figlia delle contraddizioni che in lei convivono, che la rende a suo modo unica, perlomeno in Spagna. A livello musicale, di ritorno alla lingua spagnola dopo la vocazione più avanguardista degli ultimi lavori (la cosiddetta trilogia newyorchese, arida e oscura), la Rosenvinge scrive in maniera più semplice, diretta, efficace, senza per questo rinunciare al mistero, alla sensualità e al turbamento che hanno sempre contraddistinto le sue produzioni. Inoltre, se possibile, piuttosto che impoverire la sua narrazione, l'ingenua imperfezione del suo accento spagnolo aumenta ancor di più il grado della sua femminilità, così come una piccola cicatrice sul mento, una frangetta irregolare o una fossetta orfana su una guancia rendono più attraente un viso femminile.

Il disco si apre con una canzone sussurrata ("La distancia adecuada"), che nasconde dietro una melodia volutamente dolce la torbida malinconia dell'attesa, della lontananza, dell'inquietudine che si prova verso chi si ama nonostante la sua volubilità (anche a causa de "esa señorita/que rima conmigo/que te ronda siempre alrededor./Es tu favorita/ te lleva consigo y te gusta màs que mi canciòn"). Senza indulgere in alcuna desolazione adolescenziale, è come se anche la Rosenvinge avesse deciso di guardarsi alle spalle, di liberarsi del passato, di svuotare le tasche del cappotto sul tavolo dell'ingresso prima di andare al cinema con Nacho Vegas, e mette quasi i brividi la simmetria a distanza dei loro versi iniziali:

"Nunca para tì es quizàs
yo no me equivocaba
la desazòn se va a llevar
en esta temporada
tal vez no debì dejar
que jugaras con mi falda
que difìcil es guardar
la distancia adecuada".

In fondo, è come se "El manifiesto desastre" e "Tu labio superior" fossero lo stesso disco, il racconto dello stesso passato visto con due sguardi diversi, o forse di due passati diversi visti con lo stesso sguardo. Per entrambi, la cosa più difficile rimane saper mantenere la distanza adeguata, quella distanza sfuggente che separa il passato e il presente, la ragionevolezza e il desiderio, la libertà e la vulnerabilità. Amare e amare troppo. La distanza tra loro due.

Che siano capaci di riuscirci, e quindi di evitare che la loro relazione raggiunga quel punto dopo il quale può solo iniziare a dissolversi, a me importa assai poco. Quello che mi importa è che continuino a scrivere queste canzoni, e che io, magari, possa ascoltarle in macchina mentre raggiungo le Asturie, le sue scogliere, i suoi ricci di mare, con la mappa aperta sul sedile del passeggero e una lettera piegata sul cruscotto.

venerdì 19 dicembre 2008

Voi non sapete cos'è il punk (Bettina Koster, invece, sì)

In una società piuttosto deprimente come quella attuale, in cui neanche più le sottoculture e le scene giovanili sembrano scaturire spontaneamente dalle inquietudini dei ragazzi della working-class (peraltro, categoria quantomai nebulosa, soprattutto in Italia), ma sono indotte dai dipartimenti di marketing delle industrie della cultura e dell'abbigliamento (che poi, ora come ora, sono la stessa cosa), si fa fatica a percepire nei gesti e nelle scelte degli altri una certa, vera, faticosa indipendenza intellettuale. Ognuno vorrebbe essere libero, ma nessuno sa bene cos'è la libertà, e allora ci si accontenta dell'innocua contrapposizione alla libertà di qualcun altro, o alla sua stanca riproduzione. Un vacuo gioco di specchi, spesso doppio, quando si tratta di puri e semplici revival. D'altronde, notava un amico basco che se anche quelli che convenzionalmente definiamo come punk, ovvero i presunti depositari di una libertà che dovrebbe essere radicale e contundente come un pugno in faccia alle convenzioni borghesi, presentano in realtà tutti lo stesso folcloristico aspetto, come se fossero stati sfornati in serie da un H&M per punk, allora significa che l'omologazione è totale, tanto dell'ordine come del caos.
In questo senso, bisognerebbe avere il coraggio di limitarsi a fare i conti solo con se stessi. Seguire una traiettoria che si giustifichi per se stessa, e non nel rapporto con gli altri. Volendo evitare qualsiasi banalità, si può dire che la libertà o è (una conquista) personale o non è. Meglio ancora, che la libertà è un'attitudine, un mezzo, l'empirismo quotidiano che si fa stile di vita e non si cura di tutto ciò che viene indotto, proposto, imposto dall'esterno. E' un approccio astratto e non narrativo alla vita. Insomma, la libertà non è nelle cose che si fanno, ma in come si fanno.

In un articolo apparso sul numero di dicembre della rivista musicale inglese The Wire, sottolinea questa visione fieramente autodidatta della propria educazione un curioso personaggio che risponde al nome di Bettina Koster, la quale risponde così a una domanda ("Does punk really belong in a museum?") che le viene posta con riferimento a una recente esposizione viennese che ha messo in mostra le scene punk di Berlino, Londra e New York ("Punk: No One is Innocent"):

"Punk, to me, at least, means you find your own way. You want to educate yourself, you find your way how to do it, educate yourself through time".

La Koster sa quel che dice, perchè ha vissuto da protagonista la scena post-punk della Berlino a cavallo tra gli anni settanta e ottanta, facendosi un nome come cantante e sassofonista in due splendidi gruppi, Mania D e Malaria!, particolarmente significativi poichè composti da sole donne (incazzate, e tendenzialmente con i capelli corti). Sospinti, o travolti, dagli ideali punk figli del momento, gruppi avanguardisti come Mania D e Malaria! fecero quello che era giusto fare in un'epoca di ribellione: gettare scompiglio, rompere le regole e non curarsi di tutto il resto. Gruppi di sole donne in una scena dominata dagli uomini (basta pensare a Kraftwerk, Einsturzende Neubaten, DAF), crearono un loro mondo molto personale, mischiando provocatoriamente una spavalda sessualità con l'estetica rigorosa della Repubblica di Weimar e del mondo militare.

La traiettoria personale della Koster, tuttavia, è -come detto- curiosa. Dopo essersi spostata a New york nel 1983, la disillusione nei confronti dell'industria musicale la porta addirittura a lavorare come analista a Wall Street. Un cambiamento radicale, e, questo sì, molto punk - almeno rispetto al clichè di restare a Kreuzberg a fare la bohemien. Come se questo non fosse sufficiente, la Koster adesso vive a Sieti, un paesino abbandonato dell'entoterra salernitano, dove ha preso forma quello che -l'anno prossimo- sarà il suo primo disco da solista (Queen Of Noise, già ascoltabile sul myspace dell'artista). Canzoni che pulsano di elettronica mininale, sinistra, diretta, che se non fosse per la sua voce baritona, ruvida, ancora più maschile di una voce maschile, potrebbero far parte di un qualsiasi disco dei DAF (magari quello "che saltava sempre su Der Mussolini". Ascoltare "Via Pasolini" per credere).

Se il disco arriva ora, con trent'anni di ritardo, è perchè in fondo, secondo la Koster, non è cambiato molto, e gli ideali dell'epoca sono ancora attuali. Questo vale tanto per la musica:

"You can see the waves in music, like the late 70s to early 80s, then came the trough of late 80s, then in picked up a little bit in the 90s - it got a little bit more interesting again. Now we are, I think, in a very similar time to the late 70s, when the whole punk thing came out. Because what did we have then? A disgusting music industry, bands that were horrible. The record industry was not doing well at that time. Same as now",

come per la società:

"We are in front of total mayhem and chaos. Which...[she pauses and smiles] I love. Because it's a time where things get more interesting again".

Speriamo.

venerdì 12 dicembre 2008

La lezione di Darren Hayman


Quasi un anno fa lessi un'intervista a Darren Hayman, dal titolo “5 tunes you should have heard but probably haven’t”, in cui -appunto- si chiedeva a colui che rese grandi gli indimenticati Hefner di illustrare i suoi gusti musicali attraverso cinque citazioni musicali. Prima di snocciolare una serie di nomi oggettivamente oscuri al grande e al piccolo pubblico, Hayman fece una riflessione che all'epoca mi colpì molto, sintetizzando in poche righe ciò a cui io erano anni che giravo intorno:

"I find it easy to like tunes that other people haven’t heard of. In some ways it almost defines my taste. I don’t really see the point in owning music that you are likely to hear every day on the radio or TV or in a shop. The other day I bought the Kate Nash album, I quite like it, its OK, but I don’t listen to it because every time I go out all I hear everywhere I go is bloody Kate Nash.


I know it’s elitist and snobbish to go to extreme lengths to listen to music that no body else knows, but I’m really surprised that more people don’t do it. I suppose for many people music is a group bonding thing, being part of a collective and singing along to Angels by Robbie Williams in a field (I’m not down on that by the way Angels is a fine song), but for many of my favourite gigs I have been in audiences of less than 20 people".

Pur riconoscendo l'importanza di saper essere anche nazional-popolari, mi piacque soprattutto trovarmi d'accordo con quell'intuizione iniziale ("I find it easy to like tunes that other people haven’t heard of. In some ways it almost defines my taste") secondo cui l'essere un disco di nicchia è un elemento che influisce sull'ascoltatore non -come si può acerbamente pensare- al livello superficiale dell'immagine di sè che ci si vuole costruire e si vuole dare agli altri, bensì al livello qualitativo e stilistico del proprio gusto, che viene modellato seguendo la sottile linea rossa che accomuna un certo tipo di produzioni, magari musicalmente diverse, sotto il segno dell'indipendenza, della naivete, della lontananza dell'ossimoro "industria culturale". Questo senza negare che, oggettivamente, per alcuni l'ostentazione forzata di un elitismo musicale non rappresenta altro che uno squallido e poco credibile tentativo di apparire ricercato agli occhi degli altri e, soprattutto, di se stessi. Alla fine, ricorda un po' la distinzione che esisteva nella società inglese tra lo snob e il dandy: mentre il primo per natura fa parte della massa e tenta disperatemente, attraverso la sua eccentricità, di sembrare diverso, il secondo è per natura libero da qualsiasi etichetta sociale e non si cura, in maniera discreta e ironica, che del proprio individualissimo piacere.

In un'intervista pubblicata la settimana scorsa e concessa in occasione della promozione del suo imminente nuovo disco, il dandy -non me ne voglia- Hayman è tornato sull'argomento aggiungendo una sfumatura significativa:


"I think of it as my duty as a songwriter to listen to as much off-beat and obscure music as possible. Nobody has any use for another songwriter inspired by the Beatles and the Velvet Underground".


In fondo il concetto è lo stesso e basta sostituire la parola "cantautore" con "ascoltatore curioso" per essere di nuovo pienamente d'accordo. Molta musica rimane nascosta semplicemente perchè è rara e preziosa come lo sono i tartufi neri o il lavoro oscuro di Matteo Brighi, e allora, se non ci si vuole limitare all'effimero piacere preconfezionato della canzone pronta per lo spot di un'automobile, vale la pena di sporcarsi le mani per andarla a cercare laddove gli altri sono magari troppo insicuri per avventurarsi. La ricompensa sarà il piacere discreto, intimo, privato, magari un po' futile e -perchè no?- vanitoso di assaporare qualcosa che l'abuso e la ripetizione non hanno ancora svuotato di significato.

Tutto bene, se non fosse per una curiosa eterogenesi dei fini. Venerdì sera Darren Hayman ha suonato a Madrid in un festival e io non sono andato a vederlo. Ho saputo del concerto troppo tardi, quando i biglietti, o meglio, gli abbonamenti erano già esauriti. Tra l'altro, non si trattava di un concerto qualunque, ma dell'ultima occasione -parole sue- di ascoltare dal vivo il repertorio degli Hefner (un passato che ormai, per lui, è quasi una terra straniera). Vale a dire un'evento storico a cui testimoniare, oltre che un'occasione unica per riappacificarsi con la vita. Per dare un senso a tutto il resto. Eppure, io che una volta ho preso il treno e un'altra addirittura l'aereo pur di andare a vederlo suonare, ieri non ho preso neanche una metropolitana (a dir la verità, fuor di metafora, la metro l'ho presa e ho anche provato ad entrare, ma i due stronzi alla porta, che con i loro occhiali indie dalla montatura nera e le loro spillette del cazzo si credevano molto fighi, hanno ignorato il mio dramma esistenziale).

Tornando a casa ho provato a farmene una ragione, e mi sono detto che la colpa, in fondo, non era mia, ma di quello che mi aveva insegnato proprio lui. Neanche Darren Hayman sarebbe andato a un proprio concerto tutto esaurito. Ma questo non mi ha fatto sentire meglio, neanche un po'.

lunedì 8 dicembre 2008

El rubio de Barakaldo

Nel suo bel libro dedicato alla gloriosa storia dell'Athletic Bilbao ("L'ultimo baluardo. Il calcio schietto dell'Athletic Bilbao", Limina Edizioni, 2006), Simone Bertelegni dedica alla breve e sfortunata parentesi da calciatore di Javier Clemente lo sguardo tenero e consolatorio di chi può indulgere nel senno di poi e intravedere nel tremendo infortunio che gli stroncò sul nascere una luminosa carriera in mezzo al campo non una fine, ma l'inizio di una nuova e vittoriosa stagione da allenatore, culminata con i trionfi in campionato negli anni ottantatré e ottantaquattro.

Per capire Barakaldo, conviene riportare le parole di questa storia, fermandoci lì dove tutto sembra essere perduto, e invece non lo è:
"Che l'Athletic avesse sempre puntato in maniera massiccia sui virgulti delle terre basche è stato ampiamente dimostrato nelle pagine precedenti. Sostanzialmente, però, si è sempre parlato di giovani che, una volta vestita la maglia biancorossa, ebbero numerose stagioni a disposizione per confermare la fiducia degli osservatori e degli allenatori che li avevano promossi in prima squadra. Il fato volle che a Javier Clemente non toccasse una simile fortuna.
Nato nell'operaia Baracaldo, alle porte di Bilbao, Clemente fin da piccolo scelse come giocattolo preferito il pallone. Dotato di un talento limpidissimo, di quel quid di genio in più tipico dei numeri 10 che fanno innamorare la gente, il piccolo Javier bruciò tutte le tappe: a 15 anni era già nelle Giovanili del Baracaldo; a 16, l'occhio lungo di "Piru" Gaìnza lo portò nella Primavera dell'Athletic. Poco dopo potè sedere come riserva sulla panchina della prima squadra, continuando però a giocare anche con la formazione giovanile, in questo caso da titolare fisso. Finalmente, nel 1968, in un Athletic-Liverpool di Coppa Fiere, Clemente debuttò con la maglia di una delle sue due squadre del cuore (l'altra era ed è il Baracaldo), in seguito a un'uscita per infortunio di "Txetxu" Rojo: aveva solo 18 anni. Clemente giocò male, e finì di nuovo in panchina. Passarono tre mesi prima di rivederlo in campo; l'occasione fu nientemeno che un derby contro la Real Sociedad. I biancorossi vinsero 3-0, Clemente giocò d'incanto e divenne titolare inamovibile. Eccellente distributore di palloni, da molti paragonato a Bobby Charlton, fece letteralmente impazzire d'amore i tifosi con i suoi passaggi millimetrici e decisivi. Sui bagagliai di numerose auto, a Bilbao e non solo, iniziarono a comparire eloquenti adesivi: "Clemente, il numero 10 dell'Athletic": la divinizzazione era in atto. Forse stiamo parlando di un calciatore che avrebbe conquistato il cuore di tantissimi appassionati, anche in Italia. Forse, perchè non fu possibile determinarlo. La stella di Clemente fu una cometa che passò rapidissima nel firmamento del calcio.
23 novembre 1969, stadio "Nova Creu Alta", Sabadell. La squadra locale affrontava l'Athletic. A pochi istanti dal triplice fischio, sul risultato di 2-1 per i baschi, una rude entrata di Marañòn sul regista biancorosso costrinse quest'ultimo a uscire in barella semisvenuto per il dolore. La diagnosi fu terribile: rottura di tibia, perone e caviglia. [..] Clemente finì sotto i ferri cinque volte, in un vano e ostinato tentativo di poter tornare a fare quello che più gli piaceva: giocare a calcio. Anche se lo si vide ancora in campo per qualche incontro, il dolore non lo abbandonava, e alla fine anche la sua testardaggine fu vinta. Con alle spalle appena una sessantina di partite, il ragazzo di Baracaldo lasciò il calcio giocato. Non potè nemmeno scendere in campo per la partita di omaggio che gli fu riservata, un Athletic-Borussia Moechengladbach vista dagli spalti con una gamba ingessata in seguito all'ennesima operazione chirurgica.
Oltre che grande promessa, tuttavia, Clemente seppe dimostrarsi grande persona. Dopo un infortunio che avrebbe spezzato il morale a chiunque, ebbe la forza di dimostrare le proprie capacità, se non giocando, imparando e insegnando calcio. [..] Doveva passare qualche annetto, ma l'Athletic avrebbe rivisto quel ragazzo tanto sfortunato. Lo avrebbe rivisto al timone della squadra, non tanto in qualità di regista, e quindi in campo, quanto in qualità di allenatore. E sarebbero stati tempi di gloria".

Sono convinto che "i tempi di gloria" non si misurano con le vittorie, ma con le persone che li vivono. Lo spirito del ragazzo di Barakaldo, come il vento di Vizcaya, non ha mai smesso di abitare l'erba bagnata del San Mamès. Non è un caso se, ventitré anni dopo quel terribile infortunio, fece il suo esordio in prima squadra un altro ragazzo destinato a diventare il mito di un'intera generazione di tifosi biancorossi. Biondo, trequartista e quasi bilbaino come Clemente, anche lui non indossò mai i colori di un'altra camiseta, nonostante le lusinghe di mezza Europa.
Il suo nome è Julen Guerrero, per tutti il capitano "Julentxu".

sabato 6 dicembre 2008

Un giorno, non ci vorremo più vedere

Pare un paradosso, ma le cose è bello cominciarle perchè un giorno possano finire.
Anche finire male, s'intende. Senza volersi più vedere, lasciando che i ricordi svolgano la loro funzione - ricordare quello che non è stato.
Il cammino non si sceglie, semmai si smarrisce, ma quel che è certo è che prima o poi arriva il momento in cui non c'è più strada da percorrere. Meglio saperlo dall'inizio, che c'è anche una fine. Magari ci aspetta un nuovo cammino da intraprendere, ma questa è già tutta un'altra storia.
A pensarci bene, che male fa? Si viaggia sempre per tornare a casa. O in un certo senso, per riportare a casa il viaggio.
Questo è bene ricordarselo sempre, quando si fanno le valigie.