lunedì 8 dicembre 2008

El rubio de Barakaldo

Nel suo bel libro dedicato alla gloriosa storia dell'Athletic Bilbao ("L'ultimo baluardo. Il calcio schietto dell'Athletic Bilbao", Limina Edizioni, 2006), Simone Bertelegni dedica alla breve e sfortunata parentesi da calciatore di Javier Clemente lo sguardo tenero e consolatorio di chi può indulgere nel senno di poi e intravedere nel tremendo infortunio che gli stroncò sul nascere una luminosa carriera in mezzo al campo non una fine, ma l'inizio di una nuova e vittoriosa stagione da allenatore, culminata con i trionfi in campionato negli anni ottantatré e ottantaquattro.

Per capire Barakaldo, conviene riportare le parole di questa storia, fermandoci lì dove tutto sembra essere perduto, e invece non lo è:
"Che l'Athletic avesse sempre puntato in maniera massiccia sui virgulti delle terre basche è stato ampiamente dimostrato nelle pagine precedenti. Sostanzialmente, però, si è sempre parlato di giovani che, una volta vestita la maglia biancorossa, ebbero numerose stagioni a disposizione per confermare la fiducia degli osservatori e degli allenatori che li avevano promossi in prima squadra. Il fato volle che a Javier Clemente non toccasse una simile fortuna.
Nato nell'operaia Baracaldo, alle porte di Bilbao, Clemente fin da piccolo scelse come giocattolo preferito il pallone. Dotato di un talento limpidissimo, di quel quid di genio in più tipico dei numeri 10 che fanno innamorare la gente, il piccolo Javier bruciò tutte le tappe: a 15 anni era già nelle Giovanili del Baracaldo; a 16, l'occhio lungo di "Piru" Gaìnza lo portò nella Primavera dell'Athletic. Poco dopo potè sedere come riserva sulla panchina della prima squadra, continuando però a giocare anche con la formazione giovanile, in questo caso da titolare fisso. Finalmente, nel 1968, in un Athletic-Liverpool di Coppa Fiere, Clemente debuttò con la maglia di una delle sue due squadre del cuore (l'altra era ed è il Baracaldo), in seguito a un'uscita per infortunio di "Txetxu" Rojo: aveva solo 18 anni. Clemente giocò male, e finì di nuovo in panchina. Passarono tre mesi prima di rivederlo in campo; l'occasione fu nientemeno che un derby contro la Real Sociedad. I biancorossi vinsero 3-0, Clemente giocò d'incanto e divenne titolare inamovibile. Eccellente distributore di palloni, da molti paragonato a Bobby Charlton, fece letteralmente impazzire d'amore i tifosi con i suoi passaggi millimetrici e decisivi. Sui bagagliai di numerose auto, a Bilbao e non solo, iniziarono a comparire eloquenti adesivi: "Clemente, il numero 10 dell'Athletic": la divinizzazione era in atto. Forse stiamo parlando di un calciatore che avrebbe conquistato il cuore di tantissimi appassionati, anche in Italia. Forse, perchè non fu possibile determinarlo. La stella di Clemente fu una cometa che passò rapidissima nel firmamento del calcio.
23 novembre 1969, stadio "Nova Creu Alta", Sabadell. La squadra locale affrontava l'Athletic. A pochi istanti dal triplice fischio, sul risultato di 2-1 per i baschi, una rude entrata di Marañòn sul regista biancorosso costrinse quest'ultimo a uscire in barella semisvenuto per il dolore. La diagnosi fu terribile: rottura di tibia, perone e caviglia. [..] Clemente finì sotto i ferri cinque volte, in un vano e ostinato tentativo di poter tornare a fare quello che più gli piaceva: giocare a calcio. Anche se lo si vide ancora in campo per qualche incontro, il dolore non lo abbandonava, e alla fine anche la sua testardaggine fu vinta. Con alle spalle appena una sessantina di partite, il ragazzo di Baracaldo lasciò il calcio giocato. Non potè nemmeno scendere in campo per la partita di omaggio che gli fu riservata, un Athletic-Borussia Moechengladbach vista dagli spalti con una gamba ingessata in seguito all'ennesima operazione chirurgica.
Oltre che grande promessa, tuttavia, Clemente seppe dimostrarsi grande persona. Dopo un infortunio che avrebbe spezzato il morale a chiunque, ebbe la forza di dimostrare le proprie capacità, se non giocando, imparando e insegnando calcio. [..] Doveva passare qualche annetto, ma l'Athletic avrebbe rivisto quel ragazzo tanto sfortunato. Lo avrebbe rivisto al timone della squadra, non tanto in qualità di regista, e quindi in campo, quanto in qualità di allenatore. E sarebbero stati tempi di gloria".

Sono convinto che "i tempi di gloria" non si misurano con le vittorie, ma con le persone che li vivono. Lo spirito del ragazzo di Barakaldo, come il vento di Vizcaya, non ha mai smesso di abitare l'erba bagnata del San Mamès. Non è un caso se, ventitré anni dopo quel terribile infortunio, fece il suo esordio in prima squadra un altro ragazzo destinato a diventare il mito di un'intera generazione di tifosi biancorossi. Biondo, trequartista e quasi bilbaino come Clemente, anche lui non indossò mai i colori di un'altra camiseta, nonostante le lusinghe di mezza Europa.
Il suo nome è Julen Guerrero, per tutti il capitano "Julentxu".

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