martedì 24 novembre 2009

Quando eravamo giovani sognavamo Masha Qrella

  
Quando eravamo giovani l'estate andavamo a Benicassim per il festival. Ci facevamo l'ultimo bagno a San Sebastiàn all'ora in cui la città si risvegliava, passavamo da casa a Pamplona per preparare le borse e le baguette con la tortilla, solcavamo la steppa aragonesa con la Golf blu ascoltando gli Hefner di We love the city, attraversavamo la Spagna e la Spagna attraversava noi, seguivamo il flusso delle altre macchine che a luglio scappavano verso sud, e all'ora di cena arrivavamo a Castellò, dove ci aspettava una casa, per qualcuno un letto, per altri un divano, o il tappeto. La mattina facevamo colazione con il latte e i biscotti, andavamo al mare a Benicassim, dormivamo, nuotavamo, leggevamo, giocavamo con Maria e Candela, aspettavamo le tre per attraversare il lungomare di Benicassim, con i suoi lampioni senza fine, e salire all'appartamento degli zii, sulla Torre. Arantxa cucinava, noi ci sedevamo a tavola, Ignacio mi chiedeva dell'Italia, i cugini si cambiavano il costume, Edoardo raccontava alle ragazze che faceva l'attore, le ragazze leggevano le riviste scandalistiche, poi mangiavamo fino a scoppiare. La cosa bella era che non importava di chi fosse la famiglia, importava sentirsene parte, anche se non ci eravamo mai visti prima, anche se era solo per una manciata di giorni, anche se non ci saremmo mai più rivisti. Dopo pranzo ci mettevamo in veranda, guardavamo la televisione, sfogliavamo i giornali, parlavamo dell'Osasuna, Arantxita rideva e diceva a Edoardo che assomigliava al Colate, il fidanzato di Paulina Rubio, le cuginette riposavano. Poi si facevano le sei, e allora ci cambiavamo, ci mettevamo i jeans e le magliette indie, salutavamo tutti e con la Golf andavamo ad inaugurare il festival.

Quando eravamo giovani compravamo le magliette arancioni di Belle&Sebastian non ufficiali dalla macchina di alcuni ragazzi nel parcheggio del festival di Benicassim. Arrivavamo ai concerti riposati, pasciuti, abbronzati, ridevamo degli inglesi emaciati e palliducci, della loro vita in campeggio, dei loro infradito e dei loro stupidi cappelli di paglia. Bevevamo birra in grandi bicchieri di plastica, seduti davanti ai Maximo Park, ci sbrigavamo per sentire le ultime note del Sr. Chinarro, aspettavamo il tramonto e gli Yo La Tengo (penso alla loro Tom Courtenay e mi vengono i brividi) sul prato davanti al palco centrale, parlando di progetti, di ricordi, del nulla. Mangiavamo quello che capitava, incontravamo amici, sentivamo freddo, ascoltavamo l'ultimo gruppo e poi, quando l'ambiente si faceva ostile, abbandonavamo il recinto, negandoci alle offerte di birre e pasticche dei punk disseminati nel cammino che portava al parcheggio. A casa, ruotavamo il letto, il divano e il tappeto, e Nikolas ci dava una lezione su come si lavano i denti.

Maria e Candela, le sue cugine, dopo aver scavato buche sul bagnasciuga per tutta la mattina, dopo aver mangiato l'ensaladilla rusa, dopo aver fatto la siesta,  prima di lasciarle -noi così grandi, fighi e con i capelli lunghi-, ci chiedevano una spilla in regalo. Una ciascuna. Il giorno dopo gliele portavamo, colorate, e sbagliavamo, perchè erano diverse, e a due bambine di quattro anni bisogna comprare le cose uguali, e allora una delle due ci rimaneva male, e il giorno dopo rimediavamo. Se restavamo a casa Edoardo cucinava la pasta alla carbonara per i cugini che ci avevano ospitato, gli veniva buonissima (come il pollo impanato, e le patate rosolate), però i navarri non erano abituati a mangiare pasta, figuriamoci alla carbonara, e allora dissimulavano a stento il loro gonfiore di stomaco, mentre noi ascoltavamo musica, uscivamo in terrazza, guardavo il mare, guardavamo avanti, lasciavamo che il vento ci scompigliasse i capelli sulla fronte, pensavamo al giorno dopo, ad agosto, agli esami di settembre, alle ragazze che ci aspettavano. Tornavamo al festival a sentire i Cure e i Lemonheads, un po' mi annoiavo perchè non ero lì per quello, le nuvole coprivano le montagne valenciane, ci stringevamo nelle felpe col cappuccio, Nikolas faceva ubriacare Edoardo, passavamo da un palco all'altro, non c'era un vero perchè dietro i nostri gesti, ma solo la consapevolezza di non avere una meta, perchè contava soprattutto quel che vedevamo e sentivamo durante il tragitto. L'importante era ricordarsi di lasciare le scarpe sul terrazzo prima di andare a dormire.

Quando eravamo giovani avevamo lo sguardo d'artista, osservavamo le persone, le montagne, i concerti, gli oggetti, le palme, poi chiudevamo gli occhi, li riaprivamo, e tutte quelle cose non le vedevamo più, ci sembravano diverse da come ce le ricordavamo, le vedevamo con occhi diversi, perchè giravamo intorno alla realtà, o forse la realtà girava intorno a noi, e noi eravamo i suoi registi, i suoi scrittori, i suoi fotografi. Non avevamo nostalgia del passato perchè il futuro cambiava ogni cinque minuti, come i gruppi sul palco, le uscite della carretera, con quei nomi curiosi di paesini di mare, che sapevano di paelle sulla spiaggia, fidanzate spagnole, kas limon, che magari invece erano dei posti squallidi, addolorati e pieni di vecchi, però ci confortava il mite desiderio di non doverlo scoprire mai. Credevamo nella possibilità di un incontro, nell'amore a prima vista, nei viaggi, nel piacere di poter fare qualcosa per primi, di poterlo raccontare, di lasciare la sabbia nella macchina, i costumi ad asciugare nella casa sulla Torre, il telefono in camera, il prosciutto fuori dal frigo, per quando tornavamo all'alba, affamati.


L'ultima sera, sul palco grande suonava Nick Cave. Era la prima volta da non so quanto tempo che si presentava in Spagna. Ormai svanita la commozione dei britannici per la notizia dell'irlandese che nel pomeriggio era stato trovato morto nella sua tenda, per il sole e per le pillole, l'unica cosa che contava per i figli d'Albione era fare il pieno di birre, bocadillos jamòn y queso, e prendere posto per il concerto dell'australiano, l'evento più atteso di tutto il festival. Io però lasciai lì i miei amici e me andai ("a fare un'etruscata, mi diverto di più" direbbe Arbasino), verso il più piccolo dei palchi, quello coperto, sotto il tendone. Pensavano che fossi pazzo a perdermi Nick Cave, ma sotto il tendone c'era la persona che stavo aspettando da quando eravamo saliti in macchina a Pamplona. Davanti a trenta persone (i disertori di Nick Cave, o semplici nordici capitati lì per sbaglio), c'era Masha Qrella che si preparava per il suo concerto. Avevo conosciuto Masha Qrella sulle pagine di The Wire durante l'autunno, quando -nel mio momento preferito della giornata- tornavo a casa dalle lezioni ed erano le sette, mettevo un disco, mi sdraiavo sul letto a sfogliare le riviste di musica e sognavo di andare ai festival estivi. In uno dei dischi che a volte arrivavano con la rivista inglese trovai I want you to know, rimasi fulminato, era una canzone che non smetteva mai di girarmi per la testa, una canzone d'amore e di rimpianti, disadorna e sincopata. Il manifesto della mia gioventù, scritto da qualcun altro. Era il periodo dell'indietronica, della scena tedesca, dei Notwist e dei Lali Puna, ma la musica di Masha Qrella non era così intellettuale, tutt'altro, era una manciata di lettere d'amore scritte con le drum machine, le tastiere colorate, le nuvole di Berlino. La ascoltavo e mi innamoravo della desolata dolcezza di quelle parole ("I want you to know my friend/it's where we started not where we end"), mi incuriosiva la sua storia nei Mina (peraltro un gruppo fantastico) e nei Contriva, mi perdevo nel suo ciuffo sulla fronte, che nelle foto le copriva gli occhi, la bocca, il viso. Masha Qrella si era inventata una carriera solista, al riparo nella sua Villa Qrella, lo studio di registrazione che aveva messo su a Berlino, pubblicando il primo disco (Luck, che conteneva anche la bellissima Hypersomnia) con la piccola Monika-Enterprise, per poi passare (con il seguente Unsolved Remained) alla Morr Music, l'etichetta più figa della mitteleuropa, l'ECM dell'indietronica.


Il sole tramontava su Benicassim ed io mi trovavo nel tendone di fronte a Masha Qrella, dopo che per tutto l'anno il sole era tramontato sulla mia stanza, mentre Unsolved Remained suonava senza pause. Come in sogno, Masha cantava con lo sguardo basso, nascosta dietro il ciuffo e la chitarra, un po' impacciata nel pronunciare certe parole, sorrideva allo sparuto pubblico, lo ringraziava per essere venuto, mentre io avrei voluto ringraziare lei per essere venuta. Dopo un paio di canzoni non ero più solo perchè anche i miei amici mi avevano raggiunto, delusi da Nick Cave, dalla folla oceanica, dal chiacchiericcio che accompagnava la sua voce grave. Neanche a dirlo rimasero sorpresi (incantati?) dal mio piccolo segreto. Restammo in silenzio per tutto il concerto. Quando terminò, mi avvicinai al palco, mi tolsi un peso dalla gola e le parlai. Dissi a Masha Qrella che ero venuto da Roma per vederla. Arrossì, sorrise, liberò la fronte dal ciuffo, mi mostrò una bocca che pur di baciarla Salomè le avrebbe fatto tagliare la testa, mi ringraziò, e mi dedicò il foglietto con la scaletta delle canzoni che aveva suonato, con il pennarello blu. Quel foglietto è ancora attaccato alla parete della mia stanza.


Quando eravamo giovani pensavamo che c'erano momenti che non sarebbero più tornati, ed avevamo ragione. Non siamo mai più tornati a Benicassim, non abbiamo più dormito nel salotto di Mikel a Castellò, non abbiamo più mangiato le polpette di Arantxa, non abbiamo più parlato di calcio con Ignacio, non abbiamo più riempito la Golf di sabbia, non abbiamo più fatto piani per il futuro, non ci siamo più stesi sul prato tra i bicchieri di plastica, non abbiamo più comprato magliette di Belle&Sebastian, non abbiamo più aspettato un anno intero pur di conoscere Masha Qrella. Eppure, non tutto si perde. Per un po' di tempo mi ero dimenticato di Masha Qrella, finchè quest'anno ha pubblicato un disco meraviglioso, Speak Low, nato da un bizzarro progetto commissionatole dalla Haus der Kulturen der Welt berlinese all'interno della rassegna "New York-Berlin", in cui ha interpretato con il suo costernato romanticismo, con la sua docile inquietudine, addirittura delle canzoni di Broadway di Kurt Weill e Frederick Loewe (ascoltare I talk to the trees per credere). Domenica sera Masha Qrella era a Roma e ad ascoltarla c'era ancora meno pubblico di quel pomeriggio a Benicassim. Fichissima, hipster da morire, il ciuffo, la voce, i jeans, la felpa con il cappuccio, gli occhi bassi, per un momento ho pensato che nulla fosse cambiato. Ho ritrovato quella sua aria imbronciata che ogni tanto si apriva in un sorriso, come quando si passeggia sotto un cielo grigio e all'improvviso si viene illuminati e riscaldati da uno squarcio di sole. Quel sorriso che mi ha regalato quando le ho raccontato del foglietto con le sue canzoni che ho ancora in camera, e mi ha detto che si ricordava di tutto, di me, del concerto, di quel luglio, di Benicassim, di Nick Cave - insomma, di quando eravamo giovani.

sabato 14 novembre 2009

L'arte di saper vivere fuori stagione



Un aspetto della cultura inglese, folk e un po' esoterico, che mi ha sempre affascinato, è il mite struggimento  per il passato svanito, il desiderio di rifugiarsi nella natura e di immergersi in un'esistenza quasi medievale, lontano dalle depredazioni della vita urbana. Ricordo il proprietario della casa londinese dove fui ospite un'estate di tanti anni fa, un uomo sulla cinquantina, ricco -lavorava in Borsa-, ironico, molto solo, che voleva cambiare lavoro e soprattutto non voleva raggiungere la famiglia ospite in Toscana di non so quale nobiluccio locale, perchè il suo sogno era un altro: passare le vacanze -se non la vita- nella vecchia casa semi-abbandonata di famiglia, sperduta nelle campagne del Somerset. Il suo era sia un desiderio geografico che temporale: un ritorno al passato, alla vita agreste, alle estati della sua infanzia. La sera giocavamo a backgammon nel salotto di casa, nel cuore del lussuosissimo borough of Westminster, e a me sembrava una follia che un uomo che possedeva un appartamento del genere -cinque piani in una delle zone più chic della città- mi raccontasse del suo bizzaro anelito di lasciare tutto e di tornare a vivere in quella casa di campagna, senza white goods, senza acqua calda, senza comodità. All'epoca pensavo fosse il solito inglese ricco ed eccentrico, un po' dandy un po' radical-chic, anche perchè gli indizi erano gravi, precisi e concordanti: l'aspetto trasandato, l'abbigliamento "ben malvestito", il taxi come unico mezzo di trasporto, il tappeto per le scale pieno di buchi, l'orgoglio di vivere nell'unica strada di Londra con i lampioni ancora ad olio (sic!), le stanze disadorne, il ritratto del '600 accanto alla scultura di metallo d'arte contemporanea, il bagno interamente rivestito di legno, una moglie che andava in giro a piedi nudi, le partite di calcio con i dipendenti a Battersea Park, il maggiordomo centroamericano. Solo ora capisco che sarebbe riduttivo definirlo in questo modo; in realtà, la sua inquietudine di vivere il mondo in maniera diversa, più semplice, era vera, e lui era semplicemente una persona fuori stagione.     


Non a caso, Out of season fu il titolo che l'anno successivo al mio breve passaggio londinese Beth Gibbons diede al suo disco solista così bello e così fuori moda. Un disco -e un'interprete- di cui sono stato innamorato per molto tempo (se alzo la testa, sulla parete ancora campeggia l'enorme poster della sua copertina), per la sua atmosfera così autunnale, rarefatta, costernata, così lontana eppure -nelle sfumature- così vicina a quella dei Portishead. Beth Gibbons abbandonò per vari anni il suo gruppo, il trip-hop, i lustrini, la trivialità del mercato musicale, la città, il rumore, e si ritirò in un mondo a parte, la campagna del Devon, a contatto con i misteri della natura, concentrata a scrivere canzoni esili, delicate e desolate come Mysteries, Drake (omaggio a un autore la cui eco è ben rintracciabile nel disco) o Sand River. Proprio la prima, un inno alla serenità dell'esilio bucolico, con i rumori del bosco in apertura, le parole estatiche e il video in dissolvenza introduce chi ascolta nell'umore folk del disco, prendendolo per mano come se stesse attraversando un campo abbandonato, al lato di un fiume, per  vedere l'alba:

"God knows how I adore life/when the wind turns on the shores lies another day/I cannot ask for more/And when the time bell blows my heart and I have scored a better day, well nobody made this war of mine/And the moments that I enjoy/A place of love and mystery/I'll be there anytime".

Out of season è un disco che riconcilia con la vita e allo stesso tempo ti fa sorgere lo spasimo di cambiarla, la vita, perchè è un disco sulla memoria, sul passato, sui ricordi, che non sono mera imitazione di luoghi e momenti già vissuti, ma sofferto simulacro di esperienze che continuano a vivere. La voce di Beth Gibbons è cangiante come lo sono i ricordi e le foglie in autunno, a funny time of year, e a volte è rotta, a volte limpida, a volte disperata ("there'll be no blossom on the trees/no blossom on the trees"), a volte sussurrante, a volte dolce, a volte soul, sempre in chiaroscuro;  la musica è arida, essenziale, tremendamente intima, a sprazzi illuminata da sfumature solitarie (i fiati, gli archi, un'armonica, un accenno d'elettronica), sempre evocativa. L'ascolto di Out of season è disagevole, solitario e favoloso, come lo è vivere in una casa di campagna semi-abbandonata, senza elettrodomestici ma con il bosco, il fiume, il cielo e i cavalli.

Beth Gibbons e il mio anfitrione londinese sono espressione di quel gusto tutto inglese per il passato, la natura, il rimpianto, la libertà di fuggire, di perdersi, di ricordare. Epigoni di un dandismo che trovava affermazione nell'uscire -con discrezione- dalla società, e soddisfazione nel farsi da questa desiderare. Penso a Gerald Brennan, lo scrittore inglese che nel 1919, a 27 anni, riparò in Andalusia, nel piccolo villaggio rurale di Yegen, nella sierra delle Alpujarras granadine. A Yegen vi rimase per parecchio tempo, conquistato dalla semplicità della gente e della vita, passando i suoi giorni a recuperare quell'educazione che pensava di aver perso per non essere andato all'università, e a scrivere. Di quell'esperienza, che oggi profuma di agriturismo per famiglie, ma che all'epoca era una piccola follia,  rimane traccia nel bellissimo South From Granada: Seven Years in an Andalusian Village, che Brennan scrisse ne 1957, quando era già tornato in patria.
 

In ogni caso, chi, nel mondo della musica inglese, ha incarnato questo spirito nel modo più radicale è stata senza dubbio Vashti Bunyan, che un bel giorno si stufò di essere una promessa del pop e si mise in cammino verso nord, per tornare sulla scena dopo più di trent'anni. Nel 1968, mentre gli intellettuali alle vongole che ancora ci perseguono ingrossavano la rive gauche (che Dio li maledica, tutti), Vashti Bunyan abbandonò la sua incompresa carriera pop londinese e iniziò il suo pellegrinaggio attraverso la Gran Bretagna, insieme al ragazzo di cui era innamorata, un cavallo e un cane (e presto anche un figlio), dormendo in un pullmino, con l'obiettivo di arrivare fino alle isole Ebridi, e lì fermarsi, al nord del nord della Scozia, della civiltà, della sua epoca. Il suo etereo disco d'esordio del 1970, Just Another Diamond Day, anch'esso parecchio fuori stagione, fu troppo fragile per il mondo reale, brillò per un momento ma si spense subito dopo. Le sue 100 copie furono presto risucchiate dall'oblio. Eppure, poco prima, la sua carriera era stata sul punto di prendere un'altra piega. Nel 1965 si era imbattuta, attraverso un'attrice amica della madre, nel potentissimo manager dei Rolling Stones, che l'aveva messa sotto contratto per rimpiazzare il buco lasciato dall'improvviso abbandono di Marianne Faithfull. A Vashti fu servita la fama su un piatto d'argento, sotto forma di una (in realtà noiosissima) canzone scritta da Mick Jagger e Keith Richards, Some things just stick in your mind, il suo primo singolo, con cui avrebe dovuto ritagliarsi un posto nella swinging London. Eppure, si vedeva lontano un miglio che quel vestito alla moda da pop singer non era adatto a una ragazza che inseguiva una carriera da cantatutrice, una rarità in quei tempi. E così, per quella "skinny art student with an old jumper with holes in it and a guitar slung over her shoulder", come si descrive su un numero di The Wire di qualche anno fa, giunse il momento di capire che doveva scappare da Londra.
 
Iniziò così il suo viaggio per il paese, i boschi, i fiumi, la pioggia, il vento, il silenzio, la gente dimenticata, tutte quelle cose che tu chiamale, se vuoi, emozioni (canzone che potrebbe perfettamente aver scritto Vashti Bunyan); senza soldi, senza beni, senza niente, senza pensieri a parte dar da mangiare al cavallo; lontano dalla città, dagli elettrodomestici, dalla gente; una storia, per me, così profondamente inglese, un lungo cammino d'abbandono e disincanto raccontato con felice nostalgia in Timothy Grub:
 
"They lay there and dreamed of the days
when they'd roam/Up and down the hills of the North
countryside/With the dogs eating buttercups on the 
waysude/And they'd wave all the cities goodbye".
 
Oggi, il mio anfitrione londinese continua a fare soldi in Borsa, a godersi la sua agiatezza e le sue abitudini, anche se probabilmente non ha più nessuno con cui giocare la notte a backgammon. Al massimo, quando non ce la fa più a soppportare gli elettrodomestici che lo circondano, il consumismo delle figlie, la mondanità della London Fashion Week organizzata dalla moglie, si rifugia nel basement, il suo regno di libri accatastati, strumenti abbandonati e confusione varia, e si lascia trasportare dal ricordo di certe estati trascorse al naturale nella vecchia casa di campagna. Beth Gibbons è tornata a fare ciò che l'ha resa famosa, infondendo della sua malinconia la durezza industriale, elettronica e spettrale del nuovo -splendido- disco dei Portishead, Third. Vashti Bunyan, dopo aver vagato per 24 anni tra Scozia ed Irlanda, nel 1992 si è fermata ad Edimburgo, dove tutt'ora vive con i tre figli e un nuovo marito (quell'altro si sarà perso per il cammino, magari in qualche pub).  Nel 2000 Diamond Day è stato ripubblicato, facendole conoscere, finalmente, il discreto successo che meritava. Qualche anno fa è uscito il suo secondo disco incantato,  Lookaftering, fedele testimonianza della sua vita super folk. 
 
La cosa che mi sorprende è che, nonostante siano passati più di trent'anni, nessuna traccia d'amarezza increspa la voce sussurrata di Vashti Bunyan. Ma in fondo, se decidi di vivere fuori stagione, il tempo è come se non passasse mai.