Un aspetto della cultura inglese, folk e un po' esoterico, che mi ha sempre affascinato, è il mite struggimento per il passato svanito, il desiderio di rifugiarsi nella natura e di immergersi in un'esistenza quasi medievale, lontano dalle depredazioni della vita urbana. Ricordo il proprietario della casa londinese dove fui ospite un'estate di tanti anni fa, un uomo sulla cinquantina, ricco -lavorava in Borsa-, ironico, molto solo, che voleva cambiare lavoro e soprattutto non voleva raggiungere la famiglia ospite in Toscana di non so quale nobiluccio locale, perchè il suo sogno era un altro: passare le vacanze -se non la vita- nella vecchia casa semi-abbandonata di famiglia, sperduta nelle campagne del Somerset. Il suo era sia un desiderio geografico che temporale: un ritorno al passato, alla vita agreste, alle estati della sua infanzia. La sera giocavamo a backgammon nel salotto di casa, nel cuore del lussuosissimo borough of Westminster, e a me sembrava una follia che un uomo che possedeva un appartamento del genere -cinque piani in una delle zone più chic della città- mi raccontasse del suo bizzaro anelito di lasciare tutto e di tornare a vivere in quella casa di campagna, senza white goods, senza acqua calda, senza comodità. All'epoca pensavo fosse il solito inglese ricco ed eccentrico, un po' dandy un po' radical-chic, anche perchè gli indizi erano gravi, precisi e concordanti: l'aspetto trasandato, l'abbigliamento "ben malvestito", il taxi come unico mezzo di trasporto, il tappeto per le scale pieno di buchi, l'orgoglio di vivere nell'unica strada di Londra con i lampioni ancora ad olio (sic!), le stanze disadorne, il ritratto del '600 accanto alla scultura di metallo d'arte contemporanea, il bagno interamente rivestito di legno, una moglie che andava in giro a piedi nudi, le partite di calcio con i dipendenti a Battersea Park, il maggiordomo centroamericano. Solo ora capisco che sarebbe riduttivo definirlo in questo modo; in realtà, la sua inquietudine di vivere il mondo in maniera diversa, più semplice, era vera, e lui era semplicemente una persona fuori stagione.
Non a caso, Out of season fu il titolo che l'anno successivo al mio breve passaggio londinese Beth Gibbons diede al suo disco solista così bello e così fuori moda. Un disco -e un'interprete- di cui sono stato innamorato per molto tempo (se alzo la testa, sulla parete ancora campeggia l'enorme poster della sua copertina), per la sua atmosfera così autunnale, rarefatta, costernata, così lontana eppure -nelle sfumature- così vicina a quella dei Portishead. Beth Gibbons abbandonò per vari anni il suo gruppo, il trip-hop, i lustrini, la trivialità del mercato musicale, la città, il rumore, e si ritirò in un mondo a parte, la campagna del Devon, a contatto con i misteri della natura, concentrata a scrivere canzoni esili, delicate e desolate come Mysteries, Drake (omaggio a un autore la cui eco è ben rintracciabile nel disco) o Sand River. Proprio la prima, un inno alla serenità dell'esilio bucolico, con i rumori del bosco in apertura, le parole estatiche e il video in dissolvenza introduce chi ascolta nell'umore folk del disco, prendendolo per mano come se stesse attraversando un campo abbandonato, al lato di un fiume, per vedere l'alba:
"God knows how I adore life/when the wind turns on the shores lies another day/I cannot ask for more/And when the time bell blows my heart and I have scored a better day, well nobody made this war of mine/And the moments that I enjoy/A place of love and mystery/I'll be there anytime".
Out of season è un disco che riconcilia con la vita e allo stesso tempo ti fa sorgere lo spasimo di cambiarla, la vita, perchè è un disco sulla memoria, sul passato, sui ricordi, che non sono mera imitazione di luoghi e momenti già vissuti, ma sofferto simulacro di esperienze che continuano a vivere. La voce di Beth Gibbons è cangiante come lo sono i ricordi e le foglie in autunno, a funny time of year, e a volte è rotta, a volte limpida, a volte disperata ("there'll be no blossom on the trees/no blossom on the trees"), a volte sussurrante, a volte dolce, a volte soul, sempre in chiaroscuro; la musica è arida, essenziale, tremendamente intima, a sprazzi illuminata da sfumature solitarie (i fiati, gli archi, un'armonica, un accenno d'elettronica), sempre evocativa. L'ascolto di Out of season è disagevole, solitario e favoloso, come lo è vivere in una casa di campagna semi-abbandonata, senza elettrodomestici ma con il bosco, il fiume, il cielo e i cavalli.
Beth Gibbons e il mio anfitrione londinese sono espressione di quel gusto tutto inglese per il passato, la natura, il rimpianto, la libertà di fuggire, di perdersi, di ricordare. Epigoni di un dandismo che trovava affermazione nell'uscire -con discrezione- dalla società, e soddisfazione nel farsi da questa desiderare. Penso a Gerald Brennan, lo scrittore inglese che nel 1919, a 27 anni, riparò in Andalusia, nel piccolo villaggio rurale di Yegen, nella sierra delle Alpujarras granadine. A Yegen vi rimase per parecchio tempo, conquistato dalla semplicità della gente e della vita, passando i suoi giorni a recuperare quell'educazione che pensava di aver perso per non essere andato all'università, e a scrivere. Di quell'esperienza, che oggi profuma di agriturismo per famiglie, ma che all'epoca era una piccola follia, rimane traccia nel bellissimo South From Granada: Seven Years in an Andalusian Village, che Brennan scrisse ne 1957, quando era già tornato in patria.
In ogni caso, chi, nel mondo della musica inglese, ha incarnato questo spirito nel modo più radicale è stata senza dubbio Vashti Bunyan, che un bel giorno si stufò di essere una promessa del pop e si mise in cammino verso nord, per tornare sulla scena dopo più di trent'anni. Nel 1968, mentre gli intellettuali alle vongole che ancora ci perseguono ingrossavano la rive gauche (che Dio li maledica, tutti), Vashti Bunyan abbandonò la sua incompresa carriera pop londinese e iniziò il suo pellegrinaggio attraverso la Gran Bretagna, insieme al ragazzo di cui era innamorata, un cavallo e un cane (e presto anche un figlio), dormendo in un pullmino, con l'obiettivo di arrivare fino alle isole Ebridi, e lì fermarsi, al nord del nord della Scozia, della civiltà, della sua epoca. Il suo etereo disco d'esordio del 1970, Just Another Diamond Day, anch'esso parecchio fuori stagione, fu troppo fragile per il mondo reale, brillò per un momento ma si spense subito dopo. Le sue 100 copie furono presto risucchiate dall'oblio. Eppure, poco prima, la sua carriera era stata sul punto di prendere un'altra piega. Nel 1965 si era imbattuta, attraverso un'attrice amica della madre, nel potentissimo manager dei Rolling Stones, che l'aveva messa sotto contratto per rimpiazzare il buco lasciato dall'improvviso abbandono di Marianne Faithfull. A Vashti fu servita la fama su un piatto d'argento, sotto forma di una (in realtà noiosissima) canzone scritta da Mick Jagger e Keith Richards, Some things just stick in your mind, il suo primo singolo, con cui avrebe dovuto ritagliarsi un posto nella swinging London. Eppure, si vedeva lontano un miglio che quel vestito alla moda da pop singer non era adatto a una ragazza che inseguiva una carriera da cantatutrice, una rarità in quei tempi. E così, per quella "skinny art student with an old jumper with holes in it and a guitar slung over her shoulder", come si descrive su un numero di The Wire di qualche anno fa, giunse il momento di capire che doveva scappare da Londra.
Iniziò così il suo viaggio per il paese, i boschi, i fiumi, la pioggia, il vento, il silenzio, la gente dimenticata, tutte quelle cose che tu chiamale, se vuoi, emozioni (canzone che potrebbe perfettamente aver scritto Vashti Bunyan); senza soldi, senza beni, senza niente, senza pensieri a parte dar da mangiare al cavallo; lontano dalla città, dagli elettrodomestici, dalla gente; una storia, per me, così profondamente inglese, un lungo cammino d'abbandono e disincanto raccontato con felice nostalgia in Timothy Grub:
"They lay there and dreamed of the days
when they'd roam/Up and down the hills of the North
countryside/With the dogs eating buttercups on the
waysude/And they'd wave all the cities goodbye".
Oggi, il mio anfitrione londinese continua a fare soldi in Borsa, a godersi la sua agiatezza e le sue abitudini, anche se probabilmente non ha più nessuno con cui giocare la notte a backgammon. Al massimo, quando non ce la fa più a soppportare gli elettrodomestici che lo circondano, il consumismo delle figlie, la mondanità della London Fashion Week organizzata dalla moglie, si rifugia nel basement, il suo regno di libri accatastati, strumenti abbandonati e confusione varia, e si lascia trasportare dal ricordo di certe estati trascorse al naturale nella vecchia casa di campagna. Beth Gibbons è tornata a fare ciò che l'ha resa famosa, infondendo della sua malinconia la durezza industriale, elettronica e spettrale del nuovo -splendido- disco dei Portishead, Third. Vashti Bunyan, dopo aver vagato per 24 anni tra Scozia ed Irlanda, nel 1992 si è fermata ad Edimburgo, dove tutt'ora vive con i tre figli e un nuovo marito (quell'altro si sarà perso per il cammino, magari in qualche pub). Nel 2000 Diamond Day è stato ripubblicato, facendole conoscere, finalmente, il discreto successo che meritava. Qualche anno fa è uscito il suo secondo disco incantato, Lookaftering, fedele testimonianza della sua vita super folk.
La cosa che mi sorprende è che, nonostante siano passati più di trent'anni, nessuna traccia d'amarezza increspa la voce sussurrata di Vashti Bunyan. Ma in fondo, se decidi di vivere fuori stagione, il tempo è come se non passasse mai.
2 commenti:
un piccolo intervento, fuori zona, sul rapporto tra la natura e gli inglesi: la relazione è quasi osmotica la mente corre all'arte, ed in particolare a constable, nella poesia a keats e shelley o a Tolkien... da nessuna parte come oltremanica la natura è davvero una foresta di simboli
da noi la natura, la campagna, sembra sempre triviale, legata o alla magnata di pappardelle al ragù di cinghiale con gli amici nell'agriturismo "dove volendo se pò pure dormì" o al casale in pietra del generone romano dove la moglie può sbizzarrirsi con lo stile country&chic dell'arredamento o al buon retiro snob dei radical chic alle vongole; tracce di esoterismo, di "etruscate", di fuga dalla civiltà, di panismo (cito il tuo knut hamsun), di trasognata solitudine, di tradizione, infine, di stati d'animo, spiritualismo e simboli, mai e poi mai e ancora mai.
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