In una società piuttosto deprimente come quella attuale, in cui neanche più le sottoculture e le scene giovanili sembrano scaturire spontaneamente dalle inquietudini dei ragazzi della working-class (peraltro, categoria quantomai nebulosa, soprattutto in Italia), ma sono indotte dai dipartimenti di marketing delle industrie della cultura e dell'abbigliamento (che poi, ora come ora, sono la stessa cosa), si fa fatica a percepire nei gesti e nelle scelte degli altri una certa, vera, faticosa indipendenza intellettuale. Ognuno vorrebbe essere libero, ma nessuno sa bene cos'è la libertà, e allora ci si accontenta dell'innocua contrapposizione alla libertà di qualcun altro, o alla sua stanca riproduzione. Un vacuo gioco di specchi, spesso doppio, quando si tratta di puri e semplici revival. D'altronde, notava un amico basco che se anche quelli che convenzionalmente definiamo come punk, ovvero i presunti depositari di una libertà che dovrebbe essere radicale e contundente come un pugno in faccia alle convenzioni borghesi, presentano in realtà tutti lo stesso folcloristico aspetto, come se fossero stati sfornati in serie da un H&M per punk, allora significa che l'omologazione è totale, tanto dell'ordine come del caos.
In questo senso, bisognerebbe avere il coraggio di limitarsi a fare i conti solo con se stessi. Seguire una traiettoria che si giustifichi per se stessa, e non nel rapporto con gli altri. Volendo evitare qualsiasi banalità, si può dire che la libertà o è (una conquista) personale o non è. Meglio ancora, che la libertà è un'attitudine, un mezzo, l'empirismo quotidiano che si fa stile di vita e non si cura di tutto ciò che viene indotto, proposto, imposto dall'esterno. E' un approccio astratto e non narrativo alla vita. Insomma, la libertà non è nelle cose che si fanno, ma in come si fanno.
In un articolo apparso sul numero di dicembre della rivista musicale inglese The Wire, sottolinea questa visione fieramente autodidatta della propria educazione un curioso personaggio che risponde al nome di Bettina Koster, la quale risponde così a una domanda ("Does punk really belong in a museum?") che le viene posta con riferimento a una recente esposizione viennese che ha messo in mostra le scene punk di Berlino, Londra e New York ("Punk: No One is Innocent"):
"Punk, to me, at least, means you find your own way. You want to educate yourself, you find your way how to do it, educate yourself through time".
La Koster sa quel che dice, perchè ha vissuto da protagonista la scena post-punk della Berlino a cavallo tra gli anni settanta e ottanta, facendosi un nome come cantante e sassofonista in due splendidi gruppi, Mania D e Malaria!, particolarmente significativi poichè composti da sole donne (incazzate, e tendenzialmente con i capelli corti). Sospinti, o travolti, dagli ideali punk figli del momento, gruppi avanguardisti come Mania D e Malaria! fecero quello che era giusto fare in un'epoca di ribellione: gettare scompiglio, rompere le regole e non curarsi di tutto il resto. Gruppi di sole donne in una scena dominata dagli uomini (basta pensare a Kraftwerk, Einsturzende Neubaten, DAF), crearono un loro mondo molto personale, mischiando provocatoriamente una spavalda sessualità con l'estetica rigorosa della Repubblica di Weimar e del mondo militare.
La traiettoria personale della Koster, tuttavia, è -come detto- curiosa. Dopo essersi spostata a New york nel 1983, la disillusione nei confronti dell'industria musicale la porta addirittura a lavorare come analista a Wall Street. Un cambiamento radicale, e, questo sì, molto punk - almeno rispetto al clichè di restare a Kreuzberg a fare la bohemien. Come se questo non fosse sufficiente, la Koster adesso vive a Sieti, un paesino abbandonato dell'entoterra salernitano, dove ha preso forma quello che -l'anno prossimo- sarà il suo primo disco da solista (Queen Of Noise, già ascoltabile sul myspace dell'artista). Canzoni che pulsano di elettronica mininale, sinistra, diretta, che se non fosse per la sua voce baritona, ruvida, ancora più maschile di una voce maschile, potrebbero far parte di un qualsiasi disco dei DAF (magari quello "che saltava sempre su Der Mussolini". Ascoltare "Via Pasolini" per credere).
Se il disco arriva ora, con trent'anni di ritardo, è perchè in fondo, secondo la Koster, non è cambiato molto, e gli ideali dell'epoca sono ancora attuali. Questo vale tanto per la musica:
"You can see the waves in music, like the late 70s to early 80s, then came the trough of late 80s, then in picked up a little bit in the 90s - it got a little bit more interesting again. Now we are, I think, in a very similar time to the late 70s, when the whole punk thing came out. Because what did we have then? A disgusting music industry, bands that were horrible. The record industry was not doing well at that time. Same as now",
come per la società:
"We are in front of total mayhem and chaos. Which...[she pauses and smiles] I love. Because it's a time where things get more interesting again".
Speriamo.
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