venerdì 12 dicembre 2008

La lezione di Darren Hayman


Quasi un anno fa lessi un'intervista a Darren Hayman, dal titolo “5 tunes you should have heard but probably haven’t”, in cui -appunto- si chiedeva a colui che rese grandi gli indimenticati Hefner di illustrare i suoi gusti musicali attraverso cinque citazioni musicali. Prima di snocciolare una serie di nomi oggettivamente oscuri al grande e al piccolo pubblico, Hayman fece una riflessione che all'epoca mi colpì molto, sintetizzando in poche righe ciò a cui io erano anni che giravo intorno:

"I find it easy to like tunes that other people haven’t heard of. In some ways it almost defines my taste. I don’t really see the point in owning music that you are likely to hear every day on the radio or TV or in a shop. The other day I bought the Kate Nash album, I quite like it, its OK, but I don’t listen to it because every time I go out all I hear everywhere I go is bloody Kate Nash.


I know it’s elitist and snobbish to go to extreme lengths to listen to music that no body else knows, but I’m really surprised that more people don’t do it. I suppose for many people music is a group bonding thing, being part of a collective and singing along to Angels by Robbie Williams in a field (I’m not down on that by the way Angels is a fine song), but for many of my favourite gigs I have been in audiences of less than 20 people".

Pur riconoscendo l'importanza di saper essere anche nazional-popolari, mi piacque soprattutto trovarmi d'accordo con quell'intuizione iniziale ("I find it easy to like tunes that other people haven’t heard of. In some ways it almost defines my taste") secondo cui l'essere un disco di nicchia è un elemento che influisce sull'ascoltatore non -come si può acerbamente pensare- al livello superficiale dell'immagine di sè che ci si vuole costruire e si vuole dare agli altri, bensì al livello qualitativo e stilistico del proprio gusto, che viene modellato seguendo la sottile linea rossa che accomuna un certo tipo di produzioni, magari musicalmente diverse, sotto il segno dell'indipendenza, della naivete, della lontananza dell'ossimoro "industria culturale". Questo senza negare che, oggettivamente, per alcuni l'ostentazione forzata di un elitismo musicale non rappresenta altro che uno squallido e poco credibile tentativo di apparire ricercato agli occhi degli altri e, soprattutto, di se stessi. Alla fine, ricorda un po' la distinzione che esisteva nella società inglese tra lo snob e il dandy: mentre il primo per natura fa parte della massa e tenta disperatemente, attraverso la sua eccentricità, di sembrare diverso, il secondo è per natura libero da qualsiasi etichetta sociale e non si cura, in maniera discreta e ironica, che del proprio individualissimo piacere.

In un'intervista pubblicata la settimana scorsa e concessa in occasione della promozione del suo imminente nuovo disco, il dandy -non me ne voglia- Hayman è tornato sull'argomento aggiungendo una sfumatura significativa:


"I think of it as my duty as a songwriter to listen to as much off-beat and obscure music as possible. Nobody has any use for another songwriter inspired by the Beatles and the Velvet Underground".


In fondo il concetto è lo stesso e basta sostituire la parola "cantautore" con "ascoltatore curioso" per essere di nuovo pienamente d'accordo. Molta musica rimane nascosta semplicemente perchè è rara e preziosa come lo sono i tartufi neri o il lavoro oscuro di Matteo Brighi, e allora, se non ci si vuole limitare all'effimero piacere preconfezionato della canzone pronta per lo spot di un'automobile, vale la pena di sporcarsi le mani per andarla a cercare laddove gli altri sono magari troppo insicuri per avventurarsi. La ricompensa sarà il piacere discreto, intimo, privato, magari un po' futile e -perchè no?- vanitoso di assaporare qualcosa che l'abuso e la ripetizione non hanno ancora svuotato di significato.

Tutto bene, se non fosse per una curiosa eterogenesi dei fini. Venerdì sera Darren Hayman ha suonato a Madrid in un festival e io non sono andato a vederlo. Ho saputo del concerto troppo tardi, quando i biglietti, o meglio, gli abbonamenti erano già esauriti. Tra l'altro, non si trattava di un concerto qualunque, ma dell'ultima occasione -parole sue- di ascoltare dal vivo il repertorio degli Hefner (un passato che ormai, per lui, è quasi una terra straniera). Vale a dire un'evento storico a cui testimoniare, oltre che un'occasione unica per riappacificarsi con la vita. Per dare un senso a tutto il resto. Eppure, io che una volta ho preso il treno e un'altra addirittura l'aereo pur di andare a vederlo suonare, ieri non ho preso neanche una metropolitana (a dir la verità, fuor di metafora, la metro l'ho presa e ho anche provato ad entrare, ma i due stronzi alla porta, che con i loro occhiali indie dalla montatura nera e le loro spillette del cazzo si credevano molto fighi, hanno ignorato il mio dramma esistenziale).

Tornando a casa ho provato a farmene una ragione, e mi sono detto che la colpa, in fondo, non era mia, ma di quello che mi aveva insegnato proprio lui. Neanche Darren Hayman sarebbe andato a un proprio concerto tutto esaurito. Ma questo non mi ha fatto sentire meglio, neanche un po'.

2 commenti:

Everett D. Schmitt ha detto...

http://www.theargus.co.uk/leisure/_previews/4582411.Darren_Hayman_and_The_Secondary_Modern_Freebutt__Brighton__Sep_9/

A piece you may be interested in whose copy was ruined by an Argus subeditor.

el señor dionigi ha detto...

Dom, you are a light. The pride of Brighton, together with the pier and the hotel where Sting played as a busboy in Quadrophenia. I'm wondering how a concept album about dogging would sound like..