Neanche ora che ho scoperto che Murcia è la patria del miglior gruppo shoegaze iberico, i formidabili Klaus&Kinski. Neanche per andare a visitare i luoghi da Spagna profonda in cui si snoda il video di Nunca estàs a la altura, la miglior canzone del loro disco d'esordio (Tù hoguera està ardiendo), perchè un anonimo commentatore segnala su youtube che in realtà si tratta di Elche, cittadina di mare della limitrofa provincia di Alicante, e insomma, se anche loro decidono di non ambientare a Murcia il loro video, perchè dovrei sprecarci io un fine settimana? Eppure i Klaus&Kinski sono fantastici, impossibili da togliere dalla testa, oltre che la riprova che è meglio avere sottoculture tagliate con l'accetta (da loro) che non averne affatto (da noi), meglio avere hipster jamòn y queso piuttosto che bori col piumino o radical chic formato bonsai. Impastato della malinconia dei My Bloody Valentine, delle tonalità degli Yo La Tengo e della dolcezza dei Camera Obscura, macchiato di bolero e chitarre acustiche, il pop eterogeneo del gruppo murciano -elettrico più che elettronico- ritrova omogeneità nella voce della sua cantante, che appare impassibile nella sua ironia disincantata (a partire dall'iniziale El Cristo del perdòn) eppure, sotto il caschetto, lo sguardo immobile e il vestitino vintage, trema di romanticismo, timidezza e paura (e lo fa emozionando in Lo que no cura mata).
Se immaginarmi una scena shoegaze murciana mi richiede molta fantasia (ma sempre meno di quella che mi serve per immaginarmela a Roma..), è ancora maggiore lo sforzo di pensare Thomas Mann in Extremadura, quando ascolto la loro implacabile Muerte en Plasencia, forse l'unica canzone che musicalmente li avvicina all'etichetta Elefant, la Mecca del pop naif spagnolo, che li distribuisce (a pubblicarli invece è Jabalina). Sarà perchè con Laura ci siamo stati a Plasencia, arrivandoci dal ponte sul fiume Jerte, avendo così di fronte lo stesso sfondo che il grande Joaquìn Sorolla utilizzò quasi un secolo fa per dipingere il mercato dei maiali della città, una delle grandi risorse extremeñe (da lì, tutt'ora, proviene forse il miglior jamòn de bellota del paese), e non ci è sembrato un luogo altamente spirituale. Il maestoso complesso che oggi ospita il lussuoso parador, un pugno di palazzi baronali, chiese e conventi, lo sghembo porticato della tipica plaza mayor, più che spiccare quali vestigia di un passato glorioso, cattolico e signorile, sembrano risucchiate dal contesto moderno, anonimo e povero, e più che ad interrogarsi sul senso della vita e della morte, i negozi di salumi, olio e formaggi spingono all'edonismo più sfrenato, almeno quello gastronomico.
Eppure, risalendo la valle del Jerte da Plasencia verso ovest, verso la Castilla, l'esistenzialismo dei Klaus&Kinski torna subito in mente. Ne racconta sinceramente l'atmosfera rurale un bell'articolo dell'inserto di viaggi che esce il venerdì con el Paìs, el Viajero, che, letto un giorno davanti a una berenjena rellena nella mia seconda casa di Madrid (l'eterno Guitarrista comunista, il ristorante più castizo della città), mi spinse ad affittarmi la macchina e a fare duecento chilometri verso est, per vedere dal vivo l'effetto che fa l'autunno in Extremadura, regione abbandonata al confine con il Portogallo. E così dormimmo nel castello che ospita il parador di Jarandilla de la Vera, leggendo il giornale negli stessi saloni in cui Carlo V si era fermato a riposare; percorremmo la carretera che unisce come puntini in un gioco enigmistico tutti i paesini dimenticati della valle, con i peperoncini appesi ai balconi appoggiati su pericolanti colonne di legno, le pareti ricoperte dall'eternit e le botteghe ricolme di conserve di pomodori, marmellate, mieli, formaggi, castagne, morcillas patateras e pimentòn; attraversammo piccole cascate (le chiamano gargantas, le gole), tappeti di foglie bagnate, distese di ciliegi (che in primavera colorano di bianco le colline, e da lontano sembra che abbia appena nevicato); visitammo il cimitero tedesco di Cuacos de Yuste, nascosto in un angolo di mondo tra i tornanti, dove sono sepolti i soldati tedeschi delle due guerre mondiali che morirono sulle coste e sulle terre spagnole a causa del naufragio delle loro navi o dell'abbattimento dei loro aerei, tutti ricordati senza distinzione con un'asutera croce di granito scuro; e come in un climax spirituale, infine contemplammo la serena perfezione della vista che si domina dal monastero di Yuste, dove Carlo V decise di ritirarsi negli ultimi anni della sua vita e, soprattutto, di morire. Se non è questa una morte a Plasencia, poco (cammino) ci manca.
Che poi, mi ha sempre colpito l'interpretazione che de La morte a Venezia (o a Plasencia, è uguale) ne ha dato Alejandro Rossi in un capitolo del suo Manual del distraìdo. Scrive il filosofo messicano che quando Gustav von Aschenbach, sprofondato -dopo aver cenato- nella sua poltrona in terrazza, osserva l'orribile, sfacciato, grottesco spettacolo offerto dai musicisti di strada entrati inaspettatamente nell'albergo, decide di non alzarsi, di non andarsene, perchè in loro vede annunciarsi un universo disordinato e ambiguo. Li contempla, e si rende conto che Venezia, meravigliosa e putrefatta, sono in realtà quegli attori mendicanti, quegli arlecchini, che a loro volta rappresentano il "desiderio", l'altra riva, la realtà negata (e cioè, il suo amore per il giovane Tadzio). Secondo Rossi, quando Aschenbach domanda al musicista se Venezia è ormai appestata, ciò che vuole sapere è se loro -simbolo del suo desiderio- sono malati: està preguntando si para satisfacerse es necesario aceptar la destrucciòn, maquillarse la cara, convertirse en uno de ellos. La risposta è ambigua, però Aschenbach ne coglie il senso e quando decide, come in sogno, di entrare in quella zona si tinge i capelli e si colora il volto, trasformandosi così in un personaggio di fantasia. A niente gli importa osservare come alla fine, dopo la catartica risata con gli ospiti dell'albergo, i musicisti si tolgono la maschera e "smascherano" la farsa, la commedia che avevano impersonificato, perchè Aschenbach finalmente riceve lo sguardo di Tadzio e rimane da solo nella terrazza, e questa è l'unica cosa che per lui conta.
La morte, o perlomeno la sua immagine, dev'essere un pensiero ricorrente tra gli hispter murciani (così come lo era la Bibbia per gli hipster di Glasgow, secondo Stuart Murdoch), se anche la mitica Lidia Damunt, concittadina di Klaus&Kinski e personaggio più western della scena indie spagnola, non manca di indossare i suoi panni quando interpreta le sue canzoni screpolate. Oltre a portare la tuba in testa, l'armonica sul collo, la chitarra in mano, la pandereta alla caviglia, l'altresì cantante delle Hello Cuca sfoggia spesso un carnevalesco costume da scheletro, da cui spuntano solo i suoi occhi sperduti e la sua frangetta disordinata, come nel bergmaniano (partita di scacchi inclusa) video di Echo a correr, girato nell'incredibile scenario del deserto che si estende tra Murcia e Almerìa, così polveroso, desolato e costellato di agavi da far riecheggiare le parole del Sr. Chinarro ("no acudieron buitres, pues tambièn habìan muertos"). Probabilmente allora non è un caso che la morte sia sempre collegata ad un sud geografico oltre che metafisico, ed ora che ci penso, se tanti anni fa non sono finito a Murcia, è solo perchè -evidentemente- per me non era ancora il tempo di morire. Il giorno che che mi sentirò pronto, il giorno in cui non potrò più sopportare (per dirlo con le parole visionarie di Alfred Kubin) la lotta che esprimono le forze di attrazione e repulsione, i poli della terra con le loro correnti, l'alternarsi delle stagioni, il giorno e la notte, il bianco e il nero, il cui "vero inferno consiste nel fatto che questo doppio gioco contraddittorio si prolunga in noi", saprò dove andare, affitterò la macchina, metterò il disco di Klaus&Kinski e, senza aria condizionata, punterò verso sud, verso Murcia, e non sarò (il) solo.