lunedì 15 novembre 2010

Preferisco il rumore del mar cantabrico #2 (la costa basca)

In un programma dedicato a Mikel Laboa, andato in onda poco dopo la morte del più influente cantautore basco della sua epoca, un anziano straniero raccontava alle telecamere dell'amicizia che lo univa all'artista di San Sebastiàn. Ricordava con emozione il tempo che avevano trascorso insieme nei Paesi Baschi e si lamentava di non essere mai riuscito a convincere Laboa a ricambiargli le visite, pur comprendendo, o meglio, pur intuendo, con un certo fatalismo, che doveva andare in questo modo. Secondo il mio amico Nikolas, che poi è colui che mi ha riportato quest'episodio, a Laboa sarebbe piaciuto molto visitare la terra del suo amico, però ha preferito non doverlo fare. Per non privarsi mai del gusto di potersela immaginare, aggiungo io (perchè è la stessa risposta, e suppongo quindi che alla base ci sia la stessa motivazione, che mi piace dare quando mi chiedono come mai non sia mai stato a Parigi in tutta la mia vita).

La scoperta di Mikel Laboa la devo a un lunghissimo documentario di Julio Medem, intitolato La pelota vasca, preso in prestito qualche anno fa dalla biblioteca di quartiere di Gracia. Si tratta di un ispirato collage di interviste a personaggi baschi o comunque legati, per ragioni politiche o culturali, alla "questione basca", con cui il talentuoso regista di San Sebastiàn (ma ormai madrileño d'adozione) vorrebbe, senza peraltro riuscirci davvero (in fondo alla pellicola si arriva stremati come dopo un viaggio in pullman in cui si è chiacchierato con tutti i passeggeri), aggiungere la sua testimonianza alla comprensione dell'irrisolta e spesso incompresa situazione della sua terra, unendo, ma sarebbe meglio dire facendo scorrere, le immagini con la musica intrisa d'epica di Baga, biga, higa, l'opera ancestrale ed onomatopeica che più di tanti discorsi rende l'idea di una regione che probabilmente non sarà mai una nazione indipendente dal punto di vista politico, ma che è da sempre la Heimat reale, diversa e irripetibile, per tanti uomini che lì sono nati o la Heimat metaforica per quelli che, come me, grazie all'amico di una vita, ci sono semplicemente passati tante volte, a partire da un bizzarro viaggio in macchina con gli amici più cari, continuando con un piovoso e ancora più bizzarro capodanno con Laura e la sorella, per finire con un giro hemingwayano con il padre, trasformando così la casualità in abitudine, il viaggio turistico in percorso personale, la strada in romanzo di formazione, i paesaggi della costa nelle pareti della propria stanza.

L'attaccamento viscerale alla propria terra, la gelosa rivendicazione delle proprie parole, la difesa appassionata delle proprie tradizioni, il senso ampio della famiglia, l'orgoglio ruvido e sincero di appartenere ad un piccolo mondo antico fatto di ricordi, gesti, atmosfere fuori dal tempo, storie, racconti dei nonni e degli zii non sono di certo prerogative del popolo basco, ma in quella lingua di terra che separa Bayona da Bilbao questi elementi acquistano un senso diverso, capace di nascondere anche le imperfezioni, le sbavature, le ingenuità che qualsiasi dichiarazione di unicità porta con sé. Privo di qualsiasi ornamento oleografico o ruffiano auto-compiacimento, la vera epica basca (non quella massimalista e strumentalizzata dei suoi sedicenti portavoci politici) si annida e si percepisce nei racconti dei vecchi pescatori di Ondarroa, negli alberi dipinti del misterioso bosco di Oma, nel ruggito del San Mamès, lo stadio di Bilbao, la Catedràl, quando segna l'Atleti, nello txirimiri che bagna i vestiti, nelle figure plastiche dei quadri di Aurelio Arteta, nelle grida di Mikel Laboa, nelle riproduzioni in legno delle vecchie barche che si possono comprare in un negozio del casco viejo di San Sebastiàn, nei paesaggi post-industriali di Barakaldo. L'epica basca appare in tutto il suo spirito quando si viaggia per le sue strade costiere, quelle segnate in bianco sulla mappa, quando ci si ferma a fare il bagno nelle baie, quando si osservano le scogliere erose dalla corrente incessante del mar cantabrico, quando si passeggia nel sentimento muto di un qualsiasi frontòn di paese, pensando agli anziani a bordo campo con la txapela in testa che scomettono sui pelotari punto dopo punto, trasformando le partite di pelota vasca in scontri di civiltà tra vicini di malghe o di condominio.

L'epica basca è nel silenzio del faro del capo Matxitxako che indica la rotta ai pescherecci che con il loro carico tornano dal mare del nord verso i porti di Bermeo, Ondarroa, Getaria, nel silenzio degli amici taciturni che quando devono farti capire una cosa importante non usano le parole ma ti portano sulla spiaggia ad osservare le onde, nel silenzio delle foto ingiallite di un passato cui afferrarsi con veemenza per non farsi risucchiare nell'anonimato del presente, nel silenzio del marmitako, la zuppa di patate, tonno e pomodori che si preparavano i marinai per riscaldarsi le ossa, che la vecchia madre del mio amico Fernando gli preparava quand'era ragazzo e che, così buono, non l'ha mai più mangiato, nel silenzio delle pause della conversazione telefonica tra Nikolas e la madre fatta ogni tanto in euskera non perchè ce ne sia bisogno, non perchè normalmente non si parlino in castigliano, non per non farsi capire, ma solamente per evitare che anche la lingua della loro terra, così come è successo alla sua storia, rimanga in futuro un mistero al quale si interesseranno solo gli archeologi e i poeti. L'epica basca è anche mia, vissuta nel silenzio di un'autostrada notturna, cercando di indovinare l'uscita per Hondarribia senza finire in Francia, con le gru di Irùn in fosforescente lontananza, mentre un amico dorme e l'altro si ricorda di quella volta sperduti in un'altra costa, in un'altra vita.

L'epica dei Paesi Baschi si intreccia in ogni storia familiare, infrangendo le barriere che fittiziamente separano l'universale e il personale. Ne è testimonianza un libro meraviglioso, Bilbao-New York-Bilbao, scritto in basco e successivamente tradotto in spagnolo (presto, mi auguro, arriverà anche la versione italiana). L'autore e narratore, Kirmen Uribe, nasce poeta ma soprattutto nasce ad Ondarroa, villaggio di pescatori della provincia vizcayna, figlio e nipote di gloriosi pescatori della zona. Ad Ondarroa dovevamo andare una mattina di luglio a fare il bagno, ma sbagliammo strada e ci ritrovammo su un crinale tortuoso che portava oltre Mutriku, in piena montagna. Quando finalmente riscendemmo sulla costa, dopo alcune soste gastro-intestinali, eravamo ormai a Lekeitio, in tempo giusto per morire sulla sabbia, possibilmente all'ombra.  Kirmen ricostruisce la storia della sua famiglia documentandone il processo, ricercando informazioni sulle generazioni che l'hanno preceduto da chiunque gliele le possa dare. Ecco allora la nipote dell'architetto Bastida, colui che aveva commissionato all'amico Aurelio Arteta l'affresco En la romerìa per il salone della propria casa di Ondarroa, quell'affresco conservato al Museo de Bellas Artes di Bilbao che il nonno di Kirmen, appena uscito dallo studio medico dove gli hanno annunciato che gli restano pochi mesi da vivere, vuole andare ad osservare, perchè lui lo frequentava quel salone, e forse in quella romerìa, tra le ragazze di campagna, è raffigurata anche l'amore della sua vita. Ecco allora lo zio Boni, patrono della barca Bizkargi, il cui aiuto al professore Eneko Barrutia per la compilazione del Diccionario de los pescadores vizcaìnos è documentato in un cd, e ascoltando la sua voce Kirmen si rende conto che aveva ragione la sua ragazza Nerea, quando diceva che il cormorano ad Ondarroa lo chiamano "sakillu" (ad Ondarroa, perchè già solo a Bermeo potrebbe essere tutta un'altra storia). Ecco allora l'anziana zia Maritxu, nel suo polveroso appartamento del centro di Bilbao, che insegna a Kirmen il significato del gesto maite-maite, "un gesto che non conoscevo, deve essersi perso nel tempo":

Maritxu ricorda l'ultima volta che vide suo padre. Lui la fissò da lontano e le fece un gesto cone le mani: ne mise una sopra l'altra e l'accarezzò. Maritxu mi ha ripetuto lo stesso gesto, e con la palma di una mano ha accarezzato il dorso dell'altra. "Questo vuol dire maite-maite", mi spiegò mia zia con le sue parole di ottant'anni fa.

All'altro lato della dolcezza dello sguardo di Kirmen Uribe, ma seguendo lo stesso orizzonte increspato della costa basca, c'è la modernità elettrica dei nipoti di Mikel Laboa, anche se in realtà, musicalmente parlando, non c'è nulla in comune. La frontiera si oltrepassa ad Hondarribia, da dove la sensuale voce di Miren Iza (nelle sue dolcissime esse si potrebbe annegare, come fossero onde lunghe che trascinano a riva) è partita, in direzione Madrid, con i suoi Tulsa. La prima uscita dopo San Sebastiàn, sull'autostrada che porta a Bilbao, conduce a Zarautz, che più che altro assomiglia ad un'edizione in miniatura del capoluogo guipuzcoano, con la sua concha in scala uno a cinque e i villini liberty che fanno pensare agli affreschi di Arteta, a pranzi di famiglia, a dei ritmi di vita diversi, più umani ed intensi - tutto il contrario dei Delorean, i cui ritmi sincopati rimandano piuttosto alla scuderia della DFA Records. Superata Lekeitio ed entrati così in Biscaglia, la sosta va fatta a Getxo, il sobborgo pijo della Bilbao bene, dove la meglio gioventù osserva l'oceano e intravede la costa dell'Oregon, la Portland dei Pavement, che quando suonarono per la prima volta in Spagna si fecero accompagnare nel loro tour dagli Inquilino comunista. Oggi quel gruppo mitico, così quinquis de los ochenta, non c'è più, ma i Pavement sono risorti, e se tornassero in Spagna sono certo che si farebbero scortare dai Mcenroe, nelle cui litanie post-rock, narcolettiche quanto basta, a volte sembra che si riannidi il filo dell'epica basca che Mikel Laboa aveva fatto iniziare con la sua straziante Gernika.

Già, Mikel Laboa. La costa basca l'ha inventata lui. Mi scrive Nikolas, sulla prima pagina del libro di Kirmen Uribe che mi ha mandato un mese fa, di averlo visto varie volte passeggiare per il lungomare di San Sebastiàn, davanti alla spiaggia di Ondarreta, a due passi da casa sua. Anche qualche giorno prima di morire, giusto un paio di anni fa. Indossava sempre gli stessi semplici vestiti, come se fosse un'uniforme. La camicia bianca con un golf di lana blu scuro sulle spalle, i pantaloni azzurri come il mare e le scarpe da spiaggia, di tela grezza, bianche. La nuca scoperta, gli occhi brillanti, il sorriso saggio, la fierezza dello sguardo del ragazzo che è stato (Haika Mutil, Mikel). Sullo sfondo il mar cantabrico, il cielo grigio, i pettini del vento, qualche barca, un paesaggio di Aurelio Arteta, tante storie da raccontare a chiunque abbia voglia di fermarsi ad ascoltare, anche solo per un attimo, i frammenti silenziosi dell'epica basca.