In un bizzarro film-conversazione del 1993 ("Despuès de tantos años"), il grande Michi Panero -intellettuale amateur, scrittore senza aver scritto un libro, dandy notturno della Madrid a cavallo degli anni settanta e ottanta, e molto altro- esclamava lapidario:
"Lo peor que se puede ser en este mundo es coñazo".
Più di dieci anni dopo, per celebrarne degnamente la morte -avvenuta nella solitudine di Astorga-, Nacho Vegas scrisse quella che senza dubbio è la sua canzone più ispirata e divertente, "El hombre que casi conociò a Michi Panero", un omaggio, un requiem, una farlocca (auto?)biografia di questo letterato dilettante e notorio viveur. Memorabile è l'inizio:
"Es hora de recapitular las hostias que me ha dado el mundo.
Hoy vendrán a oír mi último adiós. Bien.
Uno a uno van llegando y yo los recibo en batín.
Y unos me llaman chaval y otros me dicen caballero.
Alguno no se ha querido pronunciar.
Yo una vez tuve un amor, pero si he de ser sincero, dije "no" en el altar
y cuando digo no es no.
Fracasé una vez, fracasé diez mil
y aun así alzo mi copa hacia el cielo
en un brindis por el hombre de hoy y por lo bien que habita el mundo.
¡Mirad, las niñas van cantando! Shalalaralalá.."
E poi:
"Nunca fui en nada el mejor, tampoco he sido un gran amante.
Más de una lo querrá atestiguar.
Pero si algo hay capital, algo de veras importante,
es que me voy a morir
y cuando digo voy es que voy.
Lo he pasado bien, y casi conocí enuna ocasión a Michi Panero,
y es bastante más de lo que jamás
soñaríais en mil vidas.
¡Mirad, las niñas van cantando! Shalalaralalá..".
A suo modo, Nacho Vegas sembra voler emulare il più giovane dei Panero, seguendone le orme sul terreno dell'auto-ironia, della dannazione, del disprezzo per i birignao degli intellettuali, per il rifiuto di qualsiasi etichetta - come quella di artista di culto (in un'intervista a El Paìs-Madrid del passato sabato, rilasciata per promozionare il trionfale trittico di concerti che si apprestava a dare nella capitale, quando gli chiedono "Eso de ser artista de culto, constituye una responsabilidad muy fatigosa?", il rocker di Gijòn, scrollandosi le spalle, risponde così: "Ése es un factor coyuntural, pero carezco de tal vocación. Supongo que si Dylan irrumpiera ahora con esos discos de letras densas y canciones largas también lo catalogarían como artista de culto. No me parece mal que me lo digan, pero procuro centrarme en hacer buenas canciones") o di intellettuale della canzone ("Es un rockero 'cultureta'?", gli domandano. "La literatura es una influencia con un peso específico importante entre la gente de mi generación, pero no me gustaría que me consideraran así. Pessoa puede asomar por mis discos igual que afloran las conversaciones que escucho en los bares. [..]; si te llaman 'cultureta', es que algo estás haciendo mal", risponde).
Ma c'è un versante su cui Nacho Vegas non è emulo di nessuno ma maestro di tutti, ed è l'arte di scrivere canzoni che durano sette minuti, non contengono ritornelli, costeggiano il melodramma e nonostante tutto viene voglia di fischiettarne la melodia come se fossero dei successi pop radiofonici. D'altronde, il mestiere del musicista è schematico: raccontare una storia, accompagnarla con la musica, interpretarla con la voce - e Vegas è scrittore, musicista e interprete eccellente. Al di là del ciuffo, degli occhiali da sole, delle droghe, della cantante bionda col cognome danese, dell'entusiasmo per il nuovo movimento indie spagnolo, si tratta di un autore come ce ne sono pochi al mondo (Jeff Tweedy, magari). Se ho detto che Antonio Luque è il Morrissey iberico, allora Nacho Vegas è la prova vivente di cosa sarebbe successo se invece che a Sheffield Jarvis Cocker fosse nato nelle Asturie. Stessa teatralità, stessa voce seducente, stessi testi densi ed eleganti, stesso disincanto nei confronti del successo, stessa ubiquità culturale (musica, video, letteratura), e un ultimo disco -El manifiesto desastre- che altro non è che la stessa presa di coscienza, torturata eppure non pessimista, della fatuità della fama, della felicità, dell'amore che "l'uomo con le stesse iniziali di Gesù Cristo" aveva scoperto nel suo disco più personale e probabilmente più bello (This is Hardcore).
Con queste premesse, il concerto non poteva che essere impeccabile. Nonostante i deplorevoli tentativi del pubblico spagnolo di trasformare ogni brano in un coro da stadio, ciò che colpisce e mette i brividi è l'intimità delle storie che Nacho Vegas racconta: ogni canzone è in realtà una confessione, ti guarda negli occhi e richiede la massima empatia. Vegas non pone nessuno schermo tra lui e chi lo ascolta, è come se non stesse cantando su un palco ma fosse appoggiato al bancone di un bar, con un bicchiere di patxaràn mezzo pieno in una mano, avvolto dal fumo dell'ennesima sigaretta. E questa vulnerabilità si manifesta in tutta la sua grazia nella manciata di canzoni che affronta da solo -lui, la chitarra e la penombra- mentre il resto del gruppo lo guarda come se fosse un profeta anabattista: lo splendore di quelle note, di quelle parole, di quei gesti, probabilmente deriva dallo splendore del mar cantabrico, che non si quieta mai ("Deja que hablen, que yo prefiero oìr las cosas de la mar", canta ne "El salitre"), ma soprattutto arde del desiderio di imparare a guardare le cose con distanza e prospettiva, prendendosi sul serio ma con un sorriso, perchè nella vita si può essere di tutto tranne che un coñazo, e allora ci si può permettere anche dei versi come questi, senza essere un poeta, ma solo un genio:
"Y dìme, si ha salido el sol y no es para los dos,
entonces para quièn?
O si hoy no aùlla el viento por los dos,
entonces por quièn?
Como puedo quererte bien
si yo soy mi proprio enemigo?
Y como recomenzar
cuando hay tanto ayer aquì, en mì?
Podemos ir y preguntarle a la mar
para que nos responda con rugidos,
para que nos diga la verdad".
2 commenti:
Bravo. Ha valido la pena convencer a mi novio para que me lo tradujese.. :)
Meno male che qualcun'altro in questo arido paese conosce e apprezza il buon Nacho Vegas.
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