Quando eravamo giovani l'estate andavamo a Benicassim per il festival. Ci facevamo l'ultimo bagno a San Sebastiàn all'ora in cui la città si risvegliava, passavamo da casa a Pamplona per preparare le borse e le baguette con la tortilla, solcavamo la steppa aragonesa con la Golf blu ascoltando gli Hefner di We love the city, attraversavamo la Spagna e la Spagna attraversava noi, seguivamo il flusso delle altre macchine che a luglio scappavano verso sud, e all'ora di cena arrivavamo a Castellò, dove ci aspettava una casa, per qualcuno un letto, per altri un divano, o il tappeto. La mattina facevamo colazione con il latte e i biscotti, andavamo al mare a Benicassim, dormivamo, nuotavamo, leggevamo, giocavamo con Maria e Candela, aspettavamo le tre per attraversare il lungomare di Benicassim, con i suoi lampioni senza fine, e salire all'appartamento degli zii, sulla Torre. Arantxa cucinava, noi ci sedevamo a tavola, Ignacio mi chiedeva dell'Italia, i cugini si cambiavano il costume, Edoardo raccontava alle ragazze che faceva l'attore, le ragazze leggevano le riviste scandalistiche, poi mangiavamo fino a scoppiare. La cosa bella era che non importava di chi fosse la famiglia, importava sentirsene parte, anche se non ci eravamo mai visti prima, anche se era solo per una manciata di giorni, anche se non ci saremmo mai più rivisti. Dopo pranzo ci mettevamo in veranda, guardavamo la televisione, sfogliavamo i giornali, parlavamo dell'Osasuna, Arantxita rideva e diceva a Edoardo che assomigliava al Colate, il fidanzato di Paulina Rubio, le cuginette riposavano. Poi si facevano le sei, e allora ci cambiavamo, ci mettevamo i jeans e le magliette indie, salutavamo tutti e con la Golf andavamo ad inaugurare il festival.
Quando eravamo giovani compravamo le magliette arancioni di Belle&Sebastian non ufficiali dalla macchina di alcuni ragazzi nel parcheggio del festival di Benicassim. Arrivavamo ai concerti riposati, pasciuti, abbronzati, ridevamo degli inglesi emaciati e palliducci, della loro vita in campeggio, dei loro infradito e dei loro stupidi cappelli di paglia. Bevevamo birra in grandi bicchieri di plastica, seduti davanti ai Maximo Park, ci sbrigavamo per sentire le ultime note del Sr. Chinarro, aspettavamo il tramonto e gli Yo La Tengo (penso alla loro Tom Courtenay e mi vengono i brividi) sul prato davanti al palco centrale, parlando di progetti, di ricordi, del nulla. Mangiavamo quello che capitava, incontravamo amici, sentivamo freddo, ascoltavamo l'ultimo gruppo e poi, quando l'ambiente si faceva ostile, abbandonavamo il recinto, negandoci alle offerte di birre e pasticche dei punk disseminati nel cammino che portava al parcheggio. A casa, ruotavamo il letto, il divano e il tappeto, e Nikolas ci dava una lezione su come si lavano i denti.
Maria e Candela, le sue cugine, dopo aver scavato buche sul bagnasciuga per tutta la mattina, dopo aver mangiato l'ensaladilla rusa, dopo aver fatto la siesta, prima di lasciarle -noi così grandi, fighi e con i capelli lunghi-, ci chiedevano una spilla in regalo. Una ciascuna. Il giorno dopo gliele portavamo, colorate, e sbagliavamo, perchè erano diverse, e a due bambine di quattro anni bisogna comprare le cose uguali, e allora una delle due ci rimaneva male, e il giorno dopo rimediavamo. Se restavamo a casa Edoardo cucinava la pasta alla carbonara per i cugini che ci avevano ospitato, gli veniva buonissima (come il pollo impanato, e le patate rosolate), però i navarri non erano abituati a mangiare pasta, figuriamoci alla carbonara, e allora dissimulavano a stento il loro gonfiore di stomaco, mentre noi ascoltavamo musica, uscivamo in terrazza, guardavo il mare, guardavamo avanti, lasciavamo che il vento ci scompigliasse i capelli sulla fronte, pensavamo al giorno dopo, ad agosto, agli esami di settembre, alle ragazze che ci aspettavano. Tornavamo al festival a sentire i Cure e i Lemonheads, un po' mi annoiavo perchè non ero lì per quello, le nuvole coprivano le montagne valenciane, ci stringevamo nelle felpe col cappuccio, Nikolas faceva ubriacare Edoardo, passavamo da un palco all'altro, non c'era un vero perchè dietro i nostri gesti, ma solo la consapevolezza di non avere una meta, perchè contava soprattutto quel che vedevamo e sentivamo durante il tragitto. L'importante era ricordarsi di lasciare le scarpe sul terrazzo prima di andare a dormire.
Quando eravamo giovani avevamo lo sguardo d'artista, osservavamo le persone, le montagne, i concerti, gli oggetti, le palme, poi chiudevamo gli occhi, li riaprivamo, e tutte quelle cose non le vedevamo più, ci sembravano diverse da come ce le ricordavamo, le vedevamo con occhi diversi, perchè giravamo intorno alla realtà, o forse la realtà girava intorno a noi, e noi eravamo i suoi registi, i suoi scrittori, i suoi fotografi. Non avevamo nostalgia del passato perchè il futuro cambiava ogni cinque minuti, come i gruppi sul palco, le uscite della carretera, con quei nomi curiosi di paesini di mare, che sapevano di paelle sulla spiaggia, fidanzate spagnole, kas limon, che magari invece erano dei posti squallidi, addolorati e pieni di vecchi, però ci confortava il mite desiderio di non doverlo scoprire mai. Credevamo nella possibilità di un incontro, nell'amore a prima vista, nei viaggi, nel piacere di poter fare qualcosa per primi, di poterlo raccontare, di lasciare la sabbia nella macchina, i costumi ad asciugare nella casa sulla Torre, il telefono in camera, il prosciutto fuori dal frigo, per quando tornavamo all'alba, affamati.
L'ultima sera, sul palco grande suonava Nick Cave. Era la prima volta da non so quanto tempo che si presentava in Spagna. Ormai svanita la commozione dei britannici per la notizia dell'irlandese che nel pomeriggio era stato trovato morto nella sua tenda, per il sole e per le pillole, l'unica cosa che contava per i figli d'Albione era fare il pieno di birre, bocadillos jamòn y queso, e prendere posto per il concerto dell'australiano, l'evento più atteso di tutto il festival. Io però lasciai lì i miei amici e me andai ("a fare un'etruscata, mi diverto di più" direbbe Arbasino), verso il più piccolo dei palchi, quello coperto, sotto il tendone. Pensavano che fossi pazzo a perdermi Nick Cave, ma sotto il tendone c'era la persona che stavo aspettando da quando eravamo saliti in macchina a Pamplona. Davanti a trenta persone (i disertori di Nick Cave, o semplici nordici capitati lì per sbaglio), c'era Masha Qrella che si preparava per il suo concerto. Avevo conosciuto Masha Qrella sulle pagine di The Wire durante l'autunno, quando -nel mio momento preferito della giornata- tornavo a casa dalle lezioni ed erano le sette, mettevo un disco, mi sdraiavo sul letto a sfogliare le riviste di musica e sognavo di andare ai festival estivi. In uno dei dischi che a volte arrivavano con la rivista inglese trovai I want you to know, rimasi fulminato, era una canzone che non smetteva mai di girarmi per la testa, una canzone d'amore e di rimpianti, disadorna e sincopata. Il manifesto della mia gioventù, scritto da qualcun altro. Era il periodo dell'indietronica, della scena tedesca, dei Notwist e dei Lali Puna, ma la musica di Masha Qrella non era così intellettuale, tutt'altro, era una manciata di lettere d'amore scritte con le drum machine, le tastiere colorate, le nuvole di Berlino. La ascoltavo e mi innamoravo della desolata dolcezza di quelle parole ("I want you to know my friend/it's where we started not where we end"), mi incuriosiva la sua storia nei Mina (peraltro un gruppo fantastico) e nei Contriva, mi perdevo nel suo ciuffo sulla fronte, che nelle foto le copriva gli occhi, la bocca, il viso. Masha Qrella si era inventata una carriera solista, al riparo nella sua Villa Qrella, lo studio di registrazione che aveva messo su a Berlino, pubblicando il primo disco (Luck, che conteneva anche la bellissima Hypersomnia) con la piccola Monika-Enterprise, per poi passare (con il seguente Unsolved Remained) alla Morr Music, l'etichetta più figa della mitteleuropa, l'ECM dell'indietronica.
Il sole tramontava su Benicassim ed io mi trovavo nel tendone di fronte a Masha Qrella, dopo che per tutto l'anno il sole era tramontato sulla mia stanza, mentre Unsolved Remained suonava senza pause. Come in sogno, Masha cantava con lo sguardo basso, nascosta dietro il ciuffo e la chitarra, un po' impacciata nel pronunciare certe parole, sorrideva allo sparuto pubblico, lo ringraziava per essere venuto, mentre io avrei voluto ringraziare lei per essere venuta. Dopo un paio di canzoni non ero più solo perchè anche i miei amici mi avevano raggiunto, delusi da Nick Cave, dalla folla oceanica, dal chiacchiericcio che accompagnava la sua voce grave. Neanche a dirlo rimasero sorpresi (incantati?) dal mio piccolo segreto. Restammo in silenzio per tutto il concerto. Quando terminò, mi avvicinai al palco, mi tolsi un peso dalla gola e le parlai. Dissi a Masha Qrella che ero venuto da Roma per vederla. Arrossì, sorrise, liberò la fronte dal ciuffo, mi mostrò una bocca che pur di baciarla Salomè le avrebbe fatto tagliare la testa, mi ringraziò, e mi dedicò il foglietto con la scaletta delle canzoni che aveva suonato, con il pennarello blu. Quel foglietto è ancora attaccato alla parete della mia stanza.
Quando eravamo giovani pensavamo che c'erano momenti che non sarebbero più tornati, ed avevamo ragione. Non siamo mai più tornati a Benicassim, non abbiamo più dormito nel salotto di Mikel a Castellò, non abbiamo più mangiato le polpette di Arantxa, non abbiamo più parlato di calcio con Ignacio, non abbiamo più riempito la Golf di sabbia, non abbiamo più fatto piani per il futuro, non ci siamo più stesi sul prato tra i bicchieri di plastica, non abbiamo più comprato magliette di Belle&Sebastian, non abbiamo più aspettato un anno intero pur di conoscere Masha Qrella. Eppure, non tutto si perde. Per un po' di tempo mi ero dimenticato di Masha Qrella, finchè quest'anno ha pubblicato un disco meraviglioso, Speak Low, nato da un bizzarro progetto commissionatole dalla Haus der Kulturen der Welt berlinese all'interno della rassegna "New York-Berlin", in cui ha interpretato con il suo costernato romanticismo, con la sua docile inquietudine, addirittura delle canzoni di Broadway di Kurt Weill e Frederick Loewe (ascoltare I talk to the trees per credere). Domenica sera Masha Qrella era a Roma e ad ascoltarla c'era ancora meno pubblico di quel pomeriggio a Benicassim. Fichissima, hipster da morire, il ciuffo, la voce, i jeans, la felpa con il cappuccio, gli occhi bassi, per un momento ho pensato che nulla fosse cambiato. Ho ritrovato quella sua aria imbronciata che ogni tanto si apriva in un sorriso, come quando si passeggia sotto un cielo grigio e all'improvviso si viene illuminati e riscaldati da uno squarcio di sole. Quel sorriso che mi ha regalato quando le ho raccontato del foglietto con le sue canzoni che ho ancora in camera, e mi ha detto che si ricordava di tutto, di me, del concerto, di quel luglio, di Benicassim, di Nick Cave - insomma, di quando eravamo giovani.