Ad Avila non c'è molto da vedere, nè molto da fare. Il problema non è solo il freddo che non si accontenta dell'inverno e cerca di invadere anche le stagioni che gli sono vicine. E' che oltre le possenti mura medievali, da percorrere lungo tutto il perimetro, ogni tanto fermandosi sui torrioni ad osservare le cicogne che nidificano sulle guglie della cattedrale e a contemplare l'orizzonte limpido fino alle cime innevate della Sierra de Gredos, ci sono giusto i luoghi-souvenir di Santa Teresa -la casa, la scuola, il convento- e i piatti saporiti -pesantissimi- della più genuina cucina castellana. Come molte altre città della Castilla y Leòn, Avila non ha sviluppato un vero nuovo benessere, un gusto moderno, un'offerta contemporanea di ristoranti, musei, teatri, negozi alla moda, ed è rimasta sospesa in un'atmosfera senza età, senza stile, fondamentalmente anodina. Condannata ad essere sempre tappa di passaggio e mai meta di un viaggio, al viandante offre solo vetrine polverose, gente silenziosa, piazze vuote, saracinesche abbassate, anziani che leggono il giornale. Per fortuna c'era il sontuoso Parador in cui passare un'intera serata a leggere poesie nel salone con il camino, senza sentire neanche per un attimo la tentazione di uscire a fare due passi. Immaginandomi tutto ciò, per la domenica mattina avevo già comprato due biglietti del treno per Arèvalo. Facemmo colazione con pane e pomodoro, tortilla, prosciutto e formaggio manchego, innaffiandola con latte, caffè e succo d'arancia, e durante i successivi quaranta minuti scarsi di binari sconnessi rimpiangemmo tanto coraggio culinario.
Quando si presentò all'ultimo esame per diventare diplomatico, a metà degli anni cinquanta, Jaime Gil de Biedma probabilmente già immaginava che non sarebbe mai uscito vincitore dalla Escuela Diplomàtica. L'articolo che era appena apparso a Parigi a firma di Vicente Aleixandre, uno dei poeti protagonisti -insieme a Alberti, Garcia Lorca, Cernuda- della generazione del '27, non propriamente un intellettuale filo-franchista, in cui si poteva leggere la profezia che Jaime Gil de Biedma sarebbe diventato il miglior poeta in lingua spagnola della seconda metà del ventesimo secolo, non era stato un buon biglietto da visita in un ambiente così legato al Regime. Ironicamente, Gil de Biedma venne bocciato proprio in cultura e composizione spagnola - non male, per chi effettivamente sarebbe diventato il poeta più significativo della sua generazione. Fu così che, giunto all'ultima prova, Gil de Biedma si regalò una boutade degna di Dalì. Quando gli chiesero di esporre in un tema le attrattive di quella città che, come aspirante diplomatico, più incarnava i suoi ideali, mentre gli altri candidati lodavano il fascino dei boulevard di Parigi, l'eleganza dei parchi di Londra, la dolcezza delle rovine di Roma o la monumentalità dei palazzi di Vienna, Gil de Biedma compose un'impeccabile descrizione dedicata al paese di Arèvalo, insignificante località della provincia di Avila. Quella località che, avendo letto questa storia sulla sua biografia, più di ogni altra desideravo conoscere da quando avevo messo piede a Madrid.
Gil de Biedma è sempre stato un essere ibrido, costantemente a cavallo di due (o più mondi). Figlio della più chic borghesia urbana di Barcellona, divise la sua vita tra gli agi dell'Exaimple e la grande casa di campagna di Nava de la Asunciòn, dispersa in una brulla landa non distante da Segovia e, appunto, Avila. Soprattutto la sua infanzia, quella succursale della primavera in cui i ricordi si sedimentano per poi essere riportati alla luce, non senza fatica, con i versi della maggiore età (Gil de Biedma, insieme a Gabriel Ferrater, è stato il più lucido esponente di quella corrente chiamata poesia dell'esperienza), aveva avuto come scenario privilegiato, mentre tutt'intorno la Spagna ardeva nella Guerra Civile, il buen retiro castellano di Nava. Tra le tante immagini del passato -la plaza mayor di Segovia, il castello di Coca, i borghi di Turègano e Riofrìo, da raggiungere a cavallo o con la mehari color sabbia-, Arèvalo era una delle più amate. C'erano le vetrine illuminate, i negozi degli antiquari, il castello, la plaza de la Villa, le abbazie e le chiese. Osservando quelle architetture ricche di dettagli mudèjar, per le strade ci si poteva ancora immaginare con facilità la presenza dei fantasmi dei notabili musulmani. Fermandosi in una qualsiasi delle osterie del centro, ci si immergeva in un tripudio gastronomico, con il cochinillo, il cocido, i legumi, i formaggi, le torte, i mantecati. Un luogo magico, irreale, malinconico, l'unico in tutto il mondo che avrebbe potuto capire uno spirito inquieto come il suo. Peccato che l'intelligenza delle autorità accademiche, snob e prive di senso dell'umorismo, non poteva arrivare a tanto.
La prima sensazione fu quella di trovarsi in una delle piazze d'Italia rappresentate da Giorgio De Chirico. Un ampio spiazzo ovale, terroso, silenzioso, vuoto, inquietante, circondato da maestose chiese del trecento in mattoni rossi, San Miguel, El Salvador, San Martìn, le Torri Gemelle. Lo spazio più metafisico in cui sia mai capitato. Mancavano solo i manichini e i Bagni Misteriosi. Quella piazza era l'emblema di un paese che un tempo era stato grande, potente, ricco, che aveva dato la luce a Isabella di Castiglia e alla più bella architettura mudèjar della regione, e che oggi è ridotto all'abbandono, all'oblio, alla desolata condanna di declinarsi sempre al passato. Il centro è disabitato, le chiese sono oniriche, il castello è chiuso con le transenne, sotto i portici degli edifici della piazza ci sono solo vecchie imposte di legno serrate con i lucchetti, sul corso le facciate dei palazzi baronali sono lasciate morire sotto il peso delle rughe, le botteghe antiquarie muoiono con i loro proprietari. Un'impressione simile può provarsi solo in certi paesi dell'entroterra siciliano, Piazza Armerina, Caltagirone, Gangi, in cui edifici gattopardeschi ridotti a macerie, il cui fasto barocco degli interni può tuttavia intravedersi attraverso qualche finestra rotta, come in quella suggestiva installazione di Manfredi Beninati, o studiando la pomposità degli stemmi sui portali, convivono tranquillamente con il fiore all'occhiello degli abusi edilizi degli anni settanta, quelle palazzine squallide dall'intonaco verde oliva, i terrazzini sbeccati e le paraoble sul tetto. Mentre con Laura mangiavamo un chuletòn seduti a un tavolo all'aperto di un ristorante della piazza centrale, con le coppie locali che sciamavano dalla Messa verso il vermuth dell'aperitivo, lodando Arèvalo per il sole che Avila ci aveva negato, pensai che quel paese, in realtà, non esisteva davvero, ma era solo lo scenario immaginato nella più famosa poesia di Jaime Gil de Biedma, No volverè a ser joven:
Que la vida iba en serio
uno lo empieza a comprender màs tarde
-como todos los jòvenes, yo vine
a llevarme la vida por delante.
Dejar huella querìa
y marcharme entre aplausos
-envejecer, morir, eran tan sòlo
las dimensiones del teatro.
Pero ha pasado el tiempo
y la verdad desagradable asoma:
envejecer, morir,
es el ùnico argumento de la obra.
Passeggiare una domenica mattina per le polverose strade di Arèvalo, sorprendendosi per l'eco della propria voce che rimbalza tra le chiese mute, aiuta a ricordarsi di una piccola verità che è sempre opportuno portarsi dietro, come il resto della notte anteriore nella tasca di un cappotto, e cioè che niente di quello che possiamo fare nella nostra esistenza ci renderà più giovani. Gil de Biedma lo sapeva, e per questo, arrivato alle soglie della maturità, decise che non c'era più nulla che valesse la pena dire, e smise di scrivere. Pensava di voler essere un poeta, ma, invece, quel che in fondo voleva, era essere un poema. In un modo o nell'altro, nella sua avventurosa esperienza di vita, di giorno dirigente della più grande multinazionale del suo paese, quell'esotica Compañía de Tabacos de Filipinas che gli aprì le porte dei bassifondi morali e materiali dell'Oriente e gli occhi sul bigottismo imperante del suo paese, in cui gli uomini preferivano l'allegro e disinibito cameratismo di andare tra loro piutosto che annoiarsi con le frigide donne dell'epoca, e di notte impenitente viveur del demi-monde omosessuale di Barcellona, diviso tra le discese agli inferi in quel Barrìo Chino ieri ghetto di marchette e reietti e oggi tappezzato di lounge-bar minimalisti alla moda, e le risalite al fresco della città alta, nelle notti di alcool, conversazioni e dischi con gli amici della scuola di Barcellona, come l'editore Barral, i fratelli Goytisolo, lo scrittore Marsè, forse ci è riuscito.
Anche io, ad Arèvalo, ho avuto la sensazione di essere dentro una sua poesia, Volver. Non a caso, l'oggetto riportato indietro da una giovanile primavera trascorsa a Barcellona cui sono più legato è un elegante libro beige che raccoglie l'intera produzione poetica di Jaime Gil de Biedma, Las personas del verbo. Com'è facilmente immaginabile, è il regalo d'addio di una persona con cui ho condiviso lunghe passeggiate per le stradine di Gracia, notti piene di stelle accovacciati sull'improvvisato tetto condominiale e immangiabili paelle nella mensa dell'università. I miei ricordi sono ormai immagini di lei, scattate in un'istante: quella espressione tenera e una sfumatura degli occhi, una certa dolcezza nell'inflessione della voce, gli sbadigli furtivi di chi ha dormito male la notte precedente in pullman. Rileggere oggi i versi di quella poesia, con i post-it che mi segnalano che non ero il solo a conoscere certe emozioni, mi consola sul fatto che un giorno, passati gli anni, ritornerà quell'ingenua felicità di vedersi e ricordare che anche io, come Arèvalo, sono cambiato.
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