lunedì 17 maggio 2010

Tornare ad Arèvalo, con Jaime Gil de Biedma

Ad Avila non c'è molto da vedere, nè molto da fare. Il problema non è solo il freddo che non si accontenta dell'inverno e cerca di invadere anche le stagioni che gli sono vicine. E' che oltre le possenti mura medievali, da percorrere lungo tutto il perimetro, ogni tanto fermandosi sui torrioni ad osservare le cicogne che nidificano sulle guglie della cattedrale e a contemplare l'orizzonte limpido fino alle cime innevate della Sierra de Gredos, ci sono giusto i luoghi-souvenir di Santa Teresa -la casa, la scuola, il convento- e i piatti saporiti -pesantissimi- della più genuina cucina castellana. Come molte altre città della Castilla y Leòn, Avila non ha sviluppato un vero nuovo benessere, un gusto moderno, un'offerta contemporanea di ristoranti, musei, teatri, negozi alla moda, ed è rimasta sospesa in un'atmosfera senza età, senza stile, fondamentalmente anodina. Condannata ad essere sempre tappa di passaggio e mai meta di un viaggio, al viandante offre solo vetrine polverose, gente silenziosa, piazze vuote, saracinesche abbassate, anziani che leggono il giornale. Per fortuna c'era il sontuoso Parador in cui passare un'intera serata a leggere poesie nel salone con il camino, senza sentire neanche per un attimo la tentazione di uscire a fare due passi. Immaginandomi tutto ciò, per la domenica mattina avevo già comprato due biglietti del treno per Arèvalo. Facemmo colazione con pane e pomodoro, tortilla, prosciutto e formaggio manchego, innaffiandola con latte, caffè e succo d'arancia, e durante i successivi quaranta minuti scarsi di binari sconnessi rimpiangemmo tanto coraggio culinario.

Quando si presentò all'ultimo esame per diventare diplomatico, a metà degli anni cinquanta, Jaime Gil de Biedma probabilmente già immaginava che non sarebbe mai uscito vincitore dalla Escuela Diplomàtica. L'articolo che era appena apparso a Parigi a firma di Vicente Aleixandre, uno dei poeti protagonisti  -insieme a Alberti, Garcia Lorca, Cernuda- della generazione del '27, non propriamente un intellettuale filo-franchista, in cui si poteva leggere la profezia che Jaime Gil de Biedma sarebbe diventato il miglior poeta in lingua spagnola della seconda metà del ventesimo secolo, non era stato un buon biglietto da visita in un ambiente così legato al Regime. Ironicamente, Gil de Biedma venne bocciato proprio in cultura e composizione spagnola - non male, per chi effettivamente sarebbe diventato il poeta più significativo della sua generazione. Fu così che, giunto all'ultima prova, Gil de Biedma si regalò una boutade degna di Dalì. Quando gli chiesero di esporre in un tema le attrattive di quella città che, come aspirante diplomatico, più incarnava i suoi ideali,  mentre gli altri candidati lodavano il fascino dei boulevard di Parigi, l'eleganza dei  parchi di Londra, la dolcezza delle rovine di Roma o la monumentalità dei palazzi di Vienna, Gil de Biedma compose un'impeccabile descrizione dedicata al paese di Arèvalo, insignificante località della provincia di Avila. Quella località che, avendo letto questa storia sulla sua biografia, più di ogni altra desideravo conoscere da quando avevo messo piede a Madrid.

Gil de Biedma è sempre stato un essere ibrido, costantemente a cavallo di due (o più mondi). Figlio della più chic borghesia urbana di Barcellona, divise la sua vita tra gli agi dell'Exaimple e la grande casa di campagna di Nava de la Asunciòn, dispersa in una brulla landa non distante da Segovia e, appunto, Avila. Soprattutto la sua infanzia, quella succursale della primavera in cui i ricordi si sedimentano per poi essere riportati alla luce, non senza fatica, con i versi della maggiore età (Gil de Biedma, insieme a Gabriel Ferrater, è stato il più lucido esponente di quella corrente chiamata poesia dell'esperienza), aveva avuto come scenario privilegiato, mentre tutt'intorno la Spagna ardeva nella Guerra Civile, il buen retiro castellano di Nava. Tra le tante immagini del passato -la plaza mayor di Segovia, il castello di Coca, i borghi di Turègano e Riofrìo, da raggiungere a cavallo o con la mehari color sabbia-, Arèvalo era una delle più amate. C'erano le vetrine illuminate, i negozi degli antiquari, il castello, la plaza de la Villa, le abbazie e le chiese. Osservando quelle architetture ricche di dettagli mudèjar, per le strade ci si poteva ancora immaginare con facilità la presenza dei fantasmi dei notabili musulmani. Fermandosi in una qualsiasi delle osterie del centro, ci si immergeva in un tripudio gastronomico, con il cochinillo, il cocido, i legumi, i formaggi, le torte, i mantecati. Un luogo magico, irreale, malinconico, l'unico in tutto il mondo che avrebbe potuto capire uno spirito inquieto come il suo. Peccato che l'intelligenza delle autorità accademiche, snob e prive di senso dell'umorismo, non poteva arrivare a tanto.

La prima sensazione fu quella di trovarsi in una delle piazze d'Italia rappresentate da Giorgio De Chirico. Un ampio spiazzo ovale, terroso, silenzioso, vuoto, inquietante, circondato da maestose chiese del trecento in mattoni rossi, San Miguel, El Salvador, San Martìn, le Torri Gemelle. Lo spazio più metafisico in cui sia mai capitato. Mancavano solo i manichini e i Bagni Misteriosi. Quella piazza era l'emblema di un paese che un tempo era stato grande, potente, ricco, che aveva dato la luce a Isabella di Castiglia e alla più bella architettura mudèjar della regione, e che oggi è ridotto all'abbandono, all'oblio, alla desolata condanna di declinarsi sempre al passato. Il centro è disabitato, le chiese sono oniriche, il castello è chiuso con le transenne, sotto i portici degli edifici della piazza ci sono solo vecchie imposte di legno serrate con i lucchetti, sul corso le facciate dei palazzi baronali sono lasciate morire sotto il peso delle rughe, le botteghe antiquarie muoiono con i loro proprietari.   Un'impressione simile può provarsi solo in certi paesi dell'entroterra siciliano, Piazza Armerina, Caltagirone, Gangi, in cui edifici gattopardeschi ridotti a macerie, il cui fasto barocco degli interni può tuttavia intravedersi attraverso qualche finestra rotta, come in quella suggestiva installazione di Manfredi Beninati, o studiando la pomposità degli stemmi sui portali, convivono tranquillamente con il fiore all'occhiello degli abusi edilizi degli  anni settanta, quelle palazzine squallide dall'intonaco verde oliva, i terrazzini sbeccati e le paraoble sul tetto. Mentre con Laura mangiavamo un chuletòn seduti a un tavolo all'aperto di un ristorante della piazza centrale, con le coppie locali che sciamavano dalla Messa verso il vermuth dell'aperitivo, lodando Arèvalo per il sole che Avila ci aveva negato, pensai che quel paese, in realtà, non esisteva davvero, ma era solo lo scenario immaginato nella più famosa poesia di Jaime Gil de Biedma, No volverè a ser joven:

Que la vida iba en serio
uno lo empieza a comprender màs tarde
-como todos los jòvenes, yo vine
a llevarme la vida por delante.

Dejar huella querìa
y marcharme entre aplausos
-envejecer, morir, eran tan sòlo
las dimensiones del teatro.

Pero ha pasado el tiempo
y la verdad desagradable asoma:
envejecer, morir,
es el ùnico argumento de la obra.

Passeggiare una domenica mattina per le polverose strade di Arèvalo, sorprendendosi per l'eco della propria voce che rimbalza tra le chiese mute, aiuta a ricordarsi di una piccola verità che è sempre opportuno portarsi dietro, come il resto della notte anteriore nella tasca di un cappotto, e cioè che niente di quello che possiamo fare nella nostra esistenza ci renderà più giovani. Gil de Biedma lo sapeva, e per questo, arrivato alle soglie della maturità, decise che non c'era più nulla che valesse la pena dire, e smise di scrivere. Pensava di voler essere un poeta, ma, invece, quel che in fondo voleva, era essere un poema. In un modo o nell'altro, nella sua avventurosa esperienza di vita, di giorno dirigente della più grande multinazionale del suo paese, quell'esotica Compañía de Tabacos de Filipinas che gli aprì le porte dei bassifondi morali e materiali dell'Oriente e gli occhi sul bigottismo imperante del suo paese, in cui gli uomini preferivano l'allegro e disinibito cameratismo di andare tra loro piutosto che annoiarsi con le frigide donne dell'epoca, e di notte impenitente viveur del demi-monde omosessuale di Barcellona, diviso tra le discese agli inferi in quel Barrìo Chino ieri ghetto di marchette e reietti e oggi tappezzato di lounge-bar minimalisti alla moda, e le risalite al fresco della città alta, nelle notti di alcool, conversazioni e dischi con gli amici della scuola di Barcellona, come l'editore Barral, i fratelli Goytisolo, lo scrittore Marsè, forse ci è riuscito.

Anche io, ad Arèvalo, ho avuto la sensazione di essere dentro una sua poesia, Volver. Non a caso, l'oggetto riportato indietro da una giovanile primavera trascorsa a Barcellona cui sono più legato è un elegante libro beige che raccoglie l'intera produzione poetica di Jaime Gil de Biedma, Las personas del verbo. Com'è facilmente immaginabile, è il regalo d'addio di una persona con cui ho condiviso lunghe passeggiate per le stradine di Gracia, notti piene di stelle accovacciati sull'improvvisato tetto condominiale e immangiabili paelle nella mensa dell'università. I miei ricordi sono ormai immagini di lei, scattate in un'istante: quella espressione tenera e una sfumatura degli occhi, una certa dolcezza nell'inflessione della voce, gli sbadigli furtivi di chi ha dormito male la notte precedente in pullman. Rileggere oggi i versi di quella poesia, con i post-it che mi segnalano che non ero il solo a conoscere certe emozioni, mi consola sul fatto che un giorno, passati gli anni, ritornerà quell'ingenua felicità di vedersi e ricordare che anche io, come Arèvalo, sono cambiato. 

giovedì 4 febbraio 2010

Essere il Sr. Chinarro (a Malaga, o dovunque)

Ci sono dei luoghi che possono definirsi solo come magnetici, perchè arriva un certo momento nella vita in cui la loro forza di attrazione diventa invincibile, e l'insieme dei frammenti che ne hanno contraddistinto la nostra conoscenza lontana si ricompone di colpo in un biglietto del treno ad alta velocità. Malaga è, per me, uno di questi luoghi. In principio fu il gusto del gelato con l'uvetta, etichettato durante l' infanzia come bizzarro e antiquato, a metà strada tra il puffo e la zuppa inglese nell'espositore del bar Piselli; poi fu la canzone di Fred Bongusto, ricordata da mio padre con esotismo (per la meta, che da ragazzo gli sembrava così lontana) e nostalgia (per gli anni passati); infine fu Antonio Luque, che aveva deciso di andarci a vivere. Come se non bastasse, mentre Madrid era sferzata dal vento gelato, mi arrivarono gli ultimi due segnali: un articolo dell'inserto dei viaggi de El Paìs che raccontava dell'elegante "Malaga degli inglesi" e, soprattutto, gli appunti della mia (futura) amica Cristina di un fine settimana riscaldato dal sole, dalla spiaggia e dalle alici alla brace, che iniziava come una coltellata alla schiena, ovvero lo specchio di quei miei giorni inutili e infreddoliti: "uno sale de Madrid con nieve (o lo que sea), un frío de la leche y tan mal cuerpo que cuesta creer que a menos de una hora en avión (insufrible, eso sí) se encuentre una tierra de viento soleado y terrazas amigables repletas de pescaítos, paellas y... gente!".

Chiesi in giro se era vero, se Malaga meritava tante aspettative, e le risposte unanimi dei miei amici furono un implacabile getto d'acqua gelata lanciato sul mio entusiasmo: è una città brutta, moderna, senza encanto, niente a che vedere con gli altri capoluoghi andalusi, Siviglia, Cordoba, Granaba, Cadice, meglio il fascino mùdejar della piccola Ronda allora, o il glamour di Marbella, ma non andare a Malaga. Ovviamente, non ho creduto a nessuno di loro. Non poteva essere un posto così triste. Me lo sentivo. La mia Malaga sapeva di gelato all'uvetta, di dolcezze sussurrate "in quella casa dal patio antico", delle atmosfere del Sr. Chinarro, di spiagge e pescaìtos fritos.  Stanco allora di girarci intorno, mentre facevo calle Zurbano avanti e indietro quattro volte al giorno, e di limitarmi a immaginare, per dirla con le parole di Cristina, "esa franja infinita de chiringuitos y playa, de lanchas de espetos siempre humeantes y paellas recién hechas, de pescaítos y perros reposados que es El Palo", aspettai che arrivasse Pasqua e che arrivasse Laura, e finalmente, con la sahariana, la camicia di lino e il mio miglior spirito colonialista, salii sul treno ad alta velocità (che anche per me l'aereo è più che "insufrible"), in picchiata verso il sud del paese, arso dalla curiosità di scoprire chi aveva ragione, se i miei amici o Fred Bongusto.

In realtà, non c'è neanche bisogno di uscire dalla stazione di Malaga per trovare una risposta. Basta scendere dal treno. L'aria marina che si respira già ad aprile. La luce. L'afa. Il ritmo della vita. I sorrisi. Le insegne. Il resto è una dolce conferma. L'accento del tassista. Gli edifici con l'intonaco rovinato. I negozi di ultramarinos. I nazarenos con il cappuccio nella mano che s'incontrano per il cammino, indaffarati a raggiungere la partenza della processione. La plaza de toros della Malagueta, soffocata dai grattacieli dozzinali. Le case inerpicate sul monte Victoria, protetto dal più alto Gibralfaro, villette semplici ma chic con le buganville in puro stile caprese. La maestosa alcazaba araba. Il profumo dei gelsomini. Il decadente terrazzo della camera dell'albergo a conduzione familiare. I glicini. La voluttà di sedersi ad aspettare il tramonto, con i capelli umidi, la brezza del mare, e tutta la città distesa a vista d'occhio. 

E' che ci sono due tipi di viaggiatori: quelli che viaggiano per turismo, e quelli che viaggiano e basta, e a Malaga, grazie al cielo, il turismo è riserva indiana dei pallidi europei del nord. E allora noi, belli, colti e abbronzati, calzando espadrillas colorate scendevamo a piedi verso il centro, tagliando per le scalette "che sembra di essere a Via Tragara!", inebriati dal profumo dei fiori e guidati da quello dei ceri, e dallo strato di cera che lasciavano sull'asfalto. Come Pollicino, ripercorrevamo la strada dei nazareni con la tunica viola e, dietro un angolo, sbucavamo nel mezzo di una processione, ci acquattavamo ai bordi e aspettavamo il passaggio del grande trono di legno e oro, con il Cristo sofferente o la Vergine misericordiosa, accompagnato dai passi degli uomini col cappuccio, seguito dai sorrisi timidi dei bambini, mentre gli spettatori ammassati con noi davanti al bar al bordo della strada chiacchieravano, ridevano, attendevano la confraternita di Antonio Banderas, sgranocchiavano pipas e bevevano tintos de verano, mischiando sacro e profano con la stessa nonchalance con cui, al bancone dei bar di Malaga, l'anice e il brandy si  mischiano per dare vita alla più divina delle bevande andaluse, il sol y sombra. D'altronde è Pasqua, e -chiedo un prestito al grande Clerici-  non poteva non esserci, nelle nostre giovanili avventure, nella nostra sporting life, la stagione delle processioni.

L'incenso si dissolve mentre il mare si avvicina, e il suo odore si lascia sopraffare dalle alici che abbrustoliscono sulla brace ricavata in una barchetta di legno abbandonata sulla spiaggia. La vecchia struttura decadente dei baños del Carmen, con le sue colonne ormai solo decorative a picco sugli scogli, ci accoglie con una birra sul tavolo di plastica rosso per riposare, dopo aver passeggiato per ore lungo il mare, attraversando i quartieri del Palo e del Pedregalejo, le loro umili casette colorate ad un piano a ridosso del mare "così Italia anni sessanta!", i ristorantini di pesce con i camerieri attempati, i chiringuitos con le sdraio, i cani senza guinzaglio, la gente rilassata, con la camicia nei pantaloni, la pancia e i capelli corti impomatati. Beviamo una manzanilla al Pimpi, la bodega simbolo della città, perdendo i sensi nel cremoso salmorejo, emblema di una qualità della vita senza eguali. Ci fermiamo a comprare pistacchi, uva passa ed enormi olive nella drogheria di un vecchietto senza età, lui e la drogheria, e le olive le pesca una per una in un barattolone di plastica pieno di salamoia, e sono buonissime, carnose, come un bacio dopo una corsa. Stremati, arriviamo alla fine della passeggiata come se fosse finito il mondo: la spiaggia muore davanti a un muro, un bar con i muri scrostati allunga i suoi tavolini fino all'acqua, l'aperitivo si fa a tutte le ore, una barca solca l'orizzonte, la luce del sole si riflette sull'acqua e, sdraiata sulla panchina, da un paio d'ore addormentata, ti guardo di sfuggita da sotto il libro di Ray Loriga, e il tuo collo, per dirla col Sr. Chinarro, è lo specchio delle fate.

Già, il Sr. Chinarro. Ero convinto che Antonio Luque vivesse a Siviglia, dove è nato e dove ha registrato tutti i suoi dischi fino alla recente svolta più pop de El fuego amigo, e invece un paio di mesi prima di perderci per Malaga ho la fortuna di conoscere al Cìrculo de Bellas Artes, glorioso edificio sulla Gran Vìa madrileña, durante un concerto di Darren Hayman, il mitico Jesùs Llorente, con il suo inconfondibile aspetto (più da nerd che da hipster) barba-occhiali-camicia a scacchi. Llorente ha per me le stigmate del santo e la fede del missionario, perchè fu lui, nel 1993, ad innamorarsi così tanto del Sr. Chinarro che decise di fondare una minuscola etichetta, Acuarela, solo per pubblicare i suoi primi oscuri, criptici, meravigliosi lavori. Oggi Acuarela è una realtà musicale affermata e Sr. Chinarro ha cambiato rifugio discografico, ma Jesùs e Antonio continuano ad essere amici, e quando mi avvicino al primo per chiedergli del secondo, mi racconta che l'ha chiamato nel pomeriggio per dirgli che il suo nuovo appartamento a Malaga, a due passi dal mare, è così piccolo che quando i vicini tagliano le cipolle a lui viene da piangere.

La nuova etichetta del Sr. Chinarro, Mushroom pillow, ha da poco ripubblicato tutti i suoi vecchi dischi, quelli che Antonio Luque non vuole più cantare, perchè, come spiega durante il bellissimo programma Mapa sonoro (quando in Italia qualcosa del genere?), mentre si fa tagliare i capelli nella peluquerìa Pepe (nella Malaga più pura),  "quando un regista fa un film al cinema si va a vedere solo quello, e non un collage con i suoi film più vecchi, e mi piacerebbe che fosse così anche ai miei concerti, vorrei suonare solo il disco nuovo". Comprarli, ascoltarli e leggerne i testi non è quindi solo un piacere, ma un vero e proprio imperativo morale. E' che il Sr. Chinarro non si ascolta, o almeno non solo quello, perchè il Sr. Chinarro si è, a Malaga, a Roma o dovunque, perchè altro non è che uno stile di vita. Sbaglia anche un famoso giornalista e scrittore, normalmente illuminato, che non poco peso ha avuto nella mia formazione letteraria, quando mi scrive "ridimensioniamo la cosa: Sr. Chinarro mi piaciucchia, ma non lo ritengo come fai tu il nuovo Bach-Beethoveen-Wagner-Puccini". Il punto non è quello; il punto è l'ineluttabile naturalezza di perdersi nelle sue frasi misteriose, ellittiche, apparentemente slegate, velatamente ironiche, aspre, poetiche, fantasiose, ridondanti di rimandi popolari e costumbristi, parole  magiche che acquistano nuovi significati, legate dal disincanto dei ricordi e dello scorrere quotidiano.

D'altronde, Luque lavorava in una fabbrica di merendine, era un quadro, con la sua espressione imbronciata, i suoi modi goffi, ed era insopportabile accettare di vivere una seconda vita da artista nel cono d'ombra della realtà, o viceversa, con gli impiegati da rimproverare che lo riconoscono e si confessano fan. Arrivano così i dischi duri, difficili e solitari dei primi anni duemila, La primera obra envasada al vacìo, El ventrilocuo de sì mismoCobre cuanto antes, che spiazzano e deludono la critica dopo i piccoli grandi successi degli album precedenti (El por què de mis peinados e Nosèquè noseècuàntos), perchè Luque rinuncia ai colori dell'acordeòn, delle tastiere, delle melodie dell'amico Belmonte e dei cori femminili, per tornare a fare tutto da solo, riempiendo le melodie scabre di chitarre petrose, nude, essenziali, che si rincorrono e si disperdono come il fumo dei ceri in movimento, come l'odore dell'incenso nelle navate della Manquita, la Cattedrale di Malaga, come cavalli sotto la pioggia, e adornandole con la sua prosa inafferrabile. Sono quelli i dischi da cui partire, perchè sono i più sinceri. Si disintegra il concetto di canzone (così come nel suo recentissimo esordio letterario, con i due racconti di Socorrismo, Antonio Luque ha ha fato lo stesso con le regole della narrativa), sono solo frasi che si susseguono senza una logica, brani che si susseguono senza un ritornello, dischi che si susseguono senza un singolo radiofonico.

E' un percorso interiore che conosce l'ironia ("las misses no sabràn que responder/Es Prusia un territorio o un farol de taxis libres?"), l'amore ("en el trampolìn de la piscina, desde el mes de junio abandonado, tu cuello es el espejo de las hadas"), la nostalgia ("no tienes ni idea del viento que soplaba"), l'assurdo ("Los domingos en el campo, la paella que se pasa al lado de otro drama forestal/Yo no hice nada, tengo el coche lleno de latas de Fanta machacadas"), le visioni quotidiane, che abbiano un senso oppure no (vestiti macchiati d'olio, chipirones alla plancha, cani che si perdono nei parchi o nei parcheggi del Burger King, case sepolte dalla vegetazione, finali di canzoni perdute, ananas che cadono sulla spiaggia..) e si trasforma, si sublima in un linguaggio universale da cui, una volta che si riconosce come proprio, non si può più tornare indietro. E allora io sono il Sr. Chinarro, come sono Aki Kaurismaki, come sono Robert Rauschenberg, perchè le loro opere sono il mio modo di affrontare la vita e la mia vita è nelle loro opere, e io questo gliel'ho detto ad Antonio Luque, nel bagno di un club minimalista di Pamplona, dopo un suo concerto, ma chissà se l'avrà capito, mentre si lavava le mani, e mi regalava un foglietto con il testo di una canzone inedita.

Alla fine dei giochi, allora, ha ragione lo scrittore peruviano Sergio Galarza, quando racconta che la sua ragazza lo chiama "el Sr. Tristarro, dice que no hay tío que cante más triste como él", mentre per lui, in realtà, "es más melancólico que otra cosa", perchè Nikolas lo insegna, la malinconia è la felicità di essere tristi, e niente lo è più del Sr. Chinarro, più di Malaga, più di questa vita. Anche Fred Bongusto aveva capito tutto, già dal 1963: "Il mio amore e' nato a Malaga Malaga Malaga/Il mio cuore resta a Malaga Malaga Malaga/In quella casa dal patio antico/quante dolcezze ti ho sussurato/In quella notte di grande fiesta/io ti ho donato il mio cuor tutto l'amor". Io ci ho messo un pò più tempo, ma il risultato è stato lo stesso, perchè appena ho conosciuto Malaga, anche il mio cuore è rimasto lì, e un giorno, quando saprò cosa farmene, andrò a riprendermelo, magari in una canzone del Sr. Chinarro.

domenica 17 gennaio 2010

La morte a Murcia (è molto shoegaze)

(Klaus&Kinski)

Il caso ci mette sempre lo zampino e così è dovuto a una causalità il fatto che ho scoperto l'esistenza di Murcia, capitale dell'omonima comunità autonoma spagnola affacciata sul Mediterraneo. La causalità in questione sono le insegnanti di spagnolo che ho avuto al Cervantes, quasi tutte provenienti da lì, e mitologicamente innamorate della loro città como solo gli emigranti possono esserlo, tanto da infondere a tutti noi studenti la curiosità irrefrenabile di visitare Murcia, dipinta ai nostri occhi nè più nè meno come il Paradiso in terra. Quel tempo coincise con il momento di scegliere la destinazione dell'Erasmus, decisione delicata perchè irripetibile, ed io, da un lato imbevuto dei golosi discorsi delle mie insegnanti e dall'altro per natura sedotto dalle cose che nessuno conosce, non ebbi alcuna esitazione nell'indicare Murcia come meta preferita, e fu solo per la burocratica insistenza del responsabile dell'ufficio che indicai -svogliatamente- come meta di riserva la più nota Barcellona. Ma tanto, mi domandavo, chi altro chiederà mai di andare a Murcia? E così passai l'autunno ad immaginarmi la primavera in una casa decadente di Murcia, tra pati, azulejos, decorazioni mùdejar e giardini interni, le palme seccate dal sole torrido, la sabbia alzata dallo scirocco africano, il pesce venduto a due lire al mercato, le interminabili passeggiate sul lungomare, i pigri pomeriggi in spiaggia, insomma, la mia personalissima Morte a Venezia, finchè mi arrivò la risposta dell'università: avevo vinto -tra l'invidia generale- di andare a Barcellona. La cosa mi sembrava impossibile, inspiegabile e deludente, frutto di un errore, ed invece era la realtà: i miei buoni voti mi avevano spinto verso la Catalogna, la meta più ambita, frustrando i miei sogni di gloria bohemien e pauperisti sulla Manga menor, dove -chissà- sarebbe approdato qualcun altro. Inutile dire che a Barcellona mi sono divertito da morire, e che mentre ero lì ho pure scoperto che Murcia è tutt'altro che un luogo ameno: paesone agricolo senza storia, senza pati andalusi, e addirittura senza mare! Altro che equivoco, mi dicevo passeggiando per le vie di Gracia, si è trattato di un vero e proprio pericolo scampato. E perciò, anche per vendetta verso le menzogne delle mie vecchie insegnanti, pur avendo girato la Spagna in lungo e in largo, a Murcia non ho mai messo piede, nè mi è rimasto alcun residuo di curiosità.

Neanche ora che ho scoperto che Murcia è la patria del miglior gruppo shoegaze iberico, i formidabili Klaus&Kinski. Neanche per andare a visitare i luoghi da Spagna profonda in cui si snoda il video di Nunca estàs a la altura, la miglior canzone del loro disco d'esordio (Tù hoguera està ardiendo), perchè un anonimo commentatore segnala su youtube che in realtà si tratta di Elche, cittadina di mare della limitrofa provincia di Alicante, e insomma, se anche loro decidono di non ambientare a Murcia il loro video, perchè dovrei sprecarci io un fine settimana? Eppure i Klaus&Kinski sono fantastici, impossibili da togliere dalla testa, oltre che la riprova che è meglio avere sottoculture tagliate con l'accetta (da loro) che non averne affatto (da noi), meglio avere hipster jamòn y queso piuttosto che bori col piumino o radical chic formato bonsai. Impastato della malinconia dei My Bloody Valentine, delle tonalità degli Yo La Tengo e della dolcezza dei Camera Obscura, macchiato di bolero e chitarre acustiche,  il pop eterogeneo del gruppo murciano -elettrico più che elettronico- ritrova omogeneità nella voce della sua cantante, che appare impassibile nella sua ironia disincantata (a partire dall'iniziale El Cristo del perdòn)  eppure, sotto il caschetto, lo sguardo immobile e il vestitino vintage, trema di romanticismo, timidezza e paura (e lo fa emozionando in Lo que no cura mata).


Se immaginarmi una scena shoegaze murciana mi richiede molta fantasia (ma sempre meno di quella che mi serve per immaginarmela a Roma..), è ancora maggiore lo sforzo di pensare Thomas Mann in Extremadura, quando ascolto la loro implacabile Muerte en Plasencia, forse l'unica canzone che musicalmente li avvicina all'etichetta Elefant, la Mecca del pop naif spagnolo, che li distribuisce (a pubblicarli invece è Jabalina). Sarà perchè con Laura ci siamo stati a Plasencia, arrivandoci dal ponte sul fiume Jerte, avendo così di fronte lo stesso sfondo che il grande Joaquìn Sorolla utilizzò quasi un secolo fa per dipingere il mercato dei maiali della città, una delle grandi risorse extremeñe (da lì, tutt'ora, proviene forse il miglior jamòn de bellota del paese), e non ci è sembrato un luogo altamente spirituale. Il maestoso complesso che oggi ospita il lussuoso parador, un pugno di palazzi baronali, chiese e conventi, lo sghembo porticato della tipica plaza mayor, più che spiccare quali vestigia di un passato glorioso, cattolico e signorile, sembrano risucchiate dal contesto moderno, anonimo e povero, e più che ad interrogarsi sul senso della vita e della morte, i negozi di salumi, olio e formaggi spingono all'edonismo più sfrenato, almeno quello gastronomico.


Eppure, risalendo la valle del Jerte da Plasencia verso ovest, verso la Castilla, l'esistenzialismo dei Klaus&Kinski torna subito in mente. Ne racconta sinceramente l'atmosfera rurale un bell'articolo dell'inserto di viaggi che esce il venerdì  con el Paìs, el Viajero, che, letto un giorno davanti a una berenjena rellena nella mia seconda casa di Madrid (l'eterno Guitarrista comunista, il ristorante più castizo della città), mi spinse ad affittarmi la macchina e a fare duecento chilometri verso est, per vedere dal vivo l'effetto che fa l'autunno in Extremadura, regione abbandonata al confine con il Portogallo. E così dormimmo nel castello che ospita il parador di Jarandilla de la Vera, leggendo il giornale negli stessi saloni in cui Carlo V si era fermato a riposare; percorremmo la carretera che unisce come puntini in un gioco enigmistico tutti i paesini dimenticati della valle, con i peperoncini appesi ai balconi appoggiati su pericolanti colonne di legno, le pareti ricoperte dall'eternit e le botteghe ricolme di conserve di pomodori, marmellate, mieli, formaggi, castagne, morcillas patateras e pimentòn; attraversammo piccole cascate (le chiamano gargantas, le gole), tappeti di foglie bagnate, distese di ciliegi (che in primavera colorano di bianco le colline, e da lontano sembra che abbia appena nevicato); visitammo il cimitero tedesco di Cuacos de Yuste, nascosto in un angolo di mondo tra i tornanti, dove sono sepolti i soldati tedeschi delle due guerre mondiali che morirono sulle coste e sulle terre spagnole a causa del naufragio delle loro navi o dell'abbattimento dei loro aerei, tutti ricordati senza distinzione con un'asutera croce di granito scuro; e come in un climax spirituale, infine contemplammo la serena perfezione della vista che si domina dal monastero di Yuste, dove Carlo V decise di ritirarsi negli ultimi anni della sua vita e, soprattutto, di morire. Se non è questa una morte a Plasencia, poco (cammino) ci manca.

Che poi, mi ha sempre colpito l'interpretazione che de La morte a Venezia (o a Plasencia, è uguale) ne ha dato Alejandro Rossi in un capitolo del suo Manual del distraìdo. Scrive il filosofo messicano che quando Gustav  von Aschenbach, sprofondato -dopo aver cenato- nella sua poltrona in terrazza, osserva l'orribile, sfacciato, grottesco spettacolo offerto dai musicisti di strada entrati inaspettatamente nell'albergo, decide di non alzarsi, di non andarsene, perchè in loro vede annunciarsi un universo disordinato e ambiguo. Li contempla, e si rende conto che Venezia, meravigliosa e putrefatta, sono in realtà quegli attori mendicanti, quegli arlecchini, che a loro volta rappresentano il "desiderio", l'altra riva, la realtà negata (e cioè, il suo amore per il giovane Tadzio). Secondo Rossi, quando Aschenbach domanda al musicista se Venezia è ormai appestata, ciò che vuole sapere è se loro -simbolo del suo desiderio- sono malati: està preguntando si para satisfacerse es necesario aceptar la destrucciòn, maquillarse la cara, convertirse en uno de ellos. La risposta è ambigua, però Aschenbach ne coglie il senso e quando decide, come in sogno, di entrare in quella zona si tinge i capelli e si colora il volto, trasformandosi così in un personaggio di fantasia. A niente gli importa osservare come alla fine, dopo la catartica risata con gli ospiti dell'albergo,  i musicisti si tolgono la maschera e "smascherano" la farsa, la commedia che avevano impersonificato, perchè Aschenbach finalmente riceve lo sguardo di Tadzio e rimane da solo nella terrazza, e questa è l'unica cosa che per lui conta.


La morte, o perlomeno la sua immagine, dev'essere un pensiero ricorrente tra gli hispter murciani (così come lo era la Bibbia per gli hipster di Glasgow, secondo Stuart Murdoch), se anche la mitica Lidia Damunt,  concittadina di Klaus&Kinski e personaggio più western della scena indie spagnola, non manca di indossare i suoi panni quando interpreta le sue canzoni screpolate. Oltre a portare la tuba in testa, l'armonica sul collo, la chitarra in mano, la pandereta alla caviglia, l'altresì cantante delle Hello Cuca sfoggia spesso un carnevalesco costume da scheletro, da cui spuntano solo i suoi occhi sperduti e la sua frangetta disordinata, come nel bergmaniano (partita di scacchi inclusa) video di Echo a correr, girato nell'incredibile scenario del deserto che si estende tra Murcia e Almerìa, così polveroso, desolato e costellato di agavi da far riecheggiare le parole del Sr. Chinarro ("no acudieron buitres, pues tambièn habìan muertos"). Probabilmente allora non è un caso che la morte sia sempre collegata ad un sud geografico oltre che metafisico, ed ora che ci penso, se tanti anni fa non sono finito a Murcia, è solo perchè -evidentemente- per me non era ancora il tempo di morire. Il giorno che che mi sentirò pronto, il giorno in cui non potrò più sopportare (per dirlo con le parole visionarie di Alfred Kubin) la lotta che esprimono le forze di attrazione e repulsione, i poli della terra con le loro correnti, l'alternarsi delle stagioni, il giorno e la notte, il bianco e il nero, il cui "vero inferno consiste nel fatto che questo doppio gioco contraddittorio si prolunga in noi", saprò dove andare, affitterò la macchina, metterò il disco di Klaus&Kinski e, senza aria condizionata, punterò verso sud, verso Murcia, e non sarò (il) solo.

martedì 24 novembre 2009

Quando eravamo giovani sognavamo Masha Qrella

  
Quando eravamo giovani l'estate andavamo a Benicassim per il festival. Ci facevamo l'ultimo bagno a San Sebastiàn all'ora in cui la città si risvegliava, passavamo da casa a Pamplona per preparare le borse e le baguette con la tortilla, solcavamo la steppa aragonesa con la Golf blu ascoltando gli Hefner di We love the city, attraversavamo la Spagna e la Spagna attraversava noi, seguivamo il flusso delle altre macchine che a luglio scappavano verso sud, e all'ora di cena arrivavamo a Castellò, dove ci aspettava una casa, per qualcuno un letto, per altri un divano, o il tappeto. La mattina facevamo colazione con il latte e i biscotti, andavamo al mare a Benicassim, dormivamo, nuotavamo, leggevamo, giocavamo con Maria e Candela, aspettavamo le tre per attraversare il lungomare di Benicassim, con i suoi lampioni senza fine, e salire all'appartamento degli zii, sulla Torre. Arantxa cucinava, noi ci sedevamo a tavola, Ignacio mi chiedeva dell'Italia, i cugini si cambiavano il costume, Edoardo raccontava alle ragazze che faceva l'attore, le ragazze leggevano le riviste scandalistiche, poi mangiavamo fino a scoppiare. La cosa bella era che non importava di chi fosse la famiglia, importava sentirsene parte, anche se non ci eravamo mai visti prima, anche se era solo per una manciata di giorni, anche se non ci saremmo mai più rivisti. Dopo pranzo ci mettevamo in veranda, guardavamo la televisione, sfogliavamo i giornali, parlavamo dell'Osasuna, Arantxita rideva e diceva a Edoardo che assomigliava al Colate, il fidanzato di Paulina Rubio, le cuginette riposavano. Poi si facevano le sei, e allora ci cambiavamo, ci mettevamo i jeans e le magliette indie, salutavamo tutti e con la Golf andavamo ad inaugurare il festival.

Quando eravamo giovani compravamo le magliette arancioni di Belle&Sebastian non ufficiali dalla macchina di alcuni ragazzi nel parcheggio del festival di Benicassim. Arrivavamo ai concerti riposati, pasciuti, abbronzati, ridevamo degli inglesi emaciati e palliducci, della loro vita in campeggio, dei loro infradito e dei loro stupidi cappelli di paglia. Bevevamo birra in grandi bicchieri di plastica, seduti davanti ai Maximo Park, ci sbrigavamo per sentire le ultime note del Sr. Chinarro, aspettavamo il tramonto e gli Yo La Tengo (penso alla loro Tom Courtenay e mi vengono i brividi) sul prato davanti al palco centrale, parlando di progetti, di ricordi, del nulla. Mangiavamo quello che capitava, incontravamo amici, sentivamo freddo, ascoltavamo l'ultimo gruppo e poi, quando l'ambiente si faceva ostile, abbandonavamo il recinto, negandoci alle offerte di birre e pasticche dei punk disseminati nel cammino che portava al parcheggio. A casa, ruotavamo il letto, il divano e il tappeto, e Nikolas ci dava una lezione su come si lavano i denti.

Maria e Candela, le sue cugine, dopo aver scavato buche sul bagnasciuga per tutta la mattina, dopo aver mangiato l'ensaladilla rusa, dopo aver fatto la siesta,  prima di lasciarle -noi così grandi, fighi e con i capelli lunghi-, ci chiedevano una spilla in regalo. Una ciascuna. Il giorno dopo gliele portavamo, colorate, e sbagliavamo, perchè erano diverse, e a due bambine di quattro anni bisogna comprare le cose uguali, e allora una delle due ci rimaneva male, e il giorno dopo rimediavamo. Se restavamo a casa Edoardo cucinava la pasta alla carbonara per i cugini che ci avevano ospitato, gli veniva buonissima (come il pollo impanato, e le patate rosolate), però i navarri non erano abituati a mangiare pasta, figuriamoci alla carbonara, e allora dissimulavano a stento il loro gonfiore di stomaco, mentre noi ascoltavamo musica, uscivamo in terrazza, guardavo il mare, guardavamo avanti, lasciavamo che il vento ci scompigliasse i capelli sulla fronte, pensavamo al giorno dopo, ad agosto, agli esami di settembre, alle ragazze che ci aspettavano. Tornavamo al festival a sentire i Cure e i Lemonheads, un po' mi annoiavo perchè non ero lì per quello, le nuvole coprivano le montagne valenciane, ci stringevamo nelle felpe col cappuccio, Nikolas faceva ubriacare Edoardo, passavamo da un palco all'altro, non c'era un vero perchè dietro i nostri gesti, ma solo la consapevolezza di non avere una meta, perchè contava soprattutto quel che vedevamo e sentivamo durante il tragitto. L'importante era ricordarsi di lasciare le scarpe sul terrazzo prima di andare a dormire.

Quando eravamo giovani avevamo lo sguardo d'artista, osservavamo le persone, le montagne, i concerti, gli oggetti, le palme, poi chiudevamo gli occhi, li riaprivamo, e tutte quelle cose non le vedevamo più, ci sembravano diverse da come ce le ricordavamo, le vedevamo con occhi diversi, perchè giravamo intorno alla realtà, o forse la realtà girava intorno a noi, e noi eravamo i suoi registi, i suoi scrittori, i suoi fotografi. Non avevamo nostalgia del passato perchè il futuro cambiava ogni cinque minuti, come i gruppi sul palco, le uscite della carretera, con quei nomi curiosi di paesini di mare, che sapevano di paelle sulla spiaggia, fidanzate spagnole, kas limon, che magari invece erano dei posti squallidi, addolorati e pieni di vecchi, però ci confortava il mite desiderio di non doverlo scoprire mai. Credevamo nella possibilità di un incontro, nell'amore a prima vista, nei viaggi, nel piacere di poter fare qualcosa per primi, di poterlo raccontare, di lasciare la sabbia nella macchina, i costumi ad asciugare nella casa sulla Torre, il telefono in camera, il prosciutto fuori dal frigo, per quando tornavamo all'alba, affamati.


L'ultima sera, sul palco grande suonava Nick Cave. Era la prima volta da non so quanto tempo che si presentava in Spagna. Ormai svanita la commozione dei britannici per la notizia dell'irlandese che nel pomeriggio era stato trovato morto nella sua tenda, per il sole e per le pillole, l'unica cosa che contava per i figli d'Albione era fare il pieno di birre, bocadillos jamòn y queso, e prendere posto per il concerto dell'australiano, l'evento più atteso di tutto il festival. Io però lasciai lì i miei amici e me andai ("a fare un'etruscata, mi diverto di più" direbbe Arbasino), verso il più piccolo dei palchi, quello coperto, sotto il tendone. Pensavano che fossi pazzo a perdermi Nick Cave, ma sotto il tendone c'era la persona che stavo aspettando da quando eravamo saliti in macchina a Pamplona. Davanti a trenta persone (i disertori di Nick Cave, o semplici nordici capitati lì per sbaglio), c'era Masha Qrella che si preparava per il suo concerto. Avevo conosciuto Masha Qrella sulle pagine di The Wire durante l'autunno, quando -nel mio momento preferito della giornata- tornavo a casa dalle lezioni ed erano le sette, mettevo un disco, mi sdraiavo sul letto a sfogliare le riviste di musica e sognavo di andare ai festival estivi. In uno dei dischi che a volte arrivavano con la rivista inglese trovai I want you to know, rimasi fulminato, era una canzone che non smetteva mai di girarmi per la testa, una canzone d'amore e di rimpianti, disadorna e sincopata. Il manifesto della mia gioventù, scritto da qualcun altro. Era il periodo dell'indietronica, della scena tedesca, dei Notwist e dei Lali Puna, ma la musica di Masha Qrella non era così intellettuale, tutt'altro, era una manciata di lettere d'amore scritte con le drum machine, le tastiere colorate, le nuvole di Berlino. La ascoltavo e mi innamoravo della desolata dolcezza di quelle parole ("I want you to know my friend/it's where we started not where we end"), mi incuriosiva la sua storia nei Mina (peraltro un gruppo fantastico) e nei Contriva, mi perdevo nel suo ciuffo sulla fronte, che nelle foto le copriva gli occhi, la bocca, il viso. Masha Qrella si era inventata una carriera solista, al riparo nella sua Villa Qrella, lo studio di registrazione che aveva messo su a Berlino, pubblicando il primo disco (Luck, che conteneva anche la bellissima Hypersomnia) con la piccola Monika-Enterprise, per poi passare (con il seguente Unsolved Remained) alla Morr Music, l'etichetta più figa della mitteleuropa, l'ECM dell'indietronica.


Il sole tramontava su Benicassim ed io mi trovavo nel tendone di fronte a Masha Qrella, dopo che per tutto l'anno il sole era tramontato sulla mia stanza, mentre Unsolved Remained suonava senza pause. Come in sogno, Masha cantava con lo sguardo basso, nascosta dietro il ciuffo e la chitarra, un po' impacciata nel pronunciare certe parole, sorrideva allo sparuto pubblico, lo ringraziava per essere venuto, mentre io avrei voluto ringraziare lei per essere venuta. Dopo un paio di canzoni non ero più solo perchè anche i miei amici mi avevano raggiunto, delusi da Nick Cave, dalla folla oceanica, dal chiacchiericcio che accompagnava la sua voce grave. Neanche a dirlo rimasero sorpresi (incantati?) dal mio piccolo segreto. Restammo in silenzio per tutto il concerto. Quando terminò, mi avvicinai al palco, mi tolsi un peso dalla gola e le parlai. Dissi a Masha Qrella che ero venuto da Roma per vederla. Arrossì, sorrise, liberò la fronte dal ciuffo, mi mostrò una bocca che pur di baciarla Salomè le avrebbe fatto tagliare la testa, mi ringraziò, e mi dedicò il foglietto con la scaletta delle canzoni che aveva suonato, con il pennarello blu. Quel foglietto è ancora attaccato alla parete della mia stanza.


Quando eravamo giovani pensavamo che c'erano momenti che non sarebbero più tornati, ed avevamo ragione. Non siamo mai più tornati a Benicassim, non abbiamo più dormito nel salotto di Mikel a Castellò, non abbiamo più mangiato le polpette di Arantxa, non abbiamo più parlato di calcio con Ignacio, non abbiamo più riempito la Golf di sabbia, non abbiamo più fatto piani per il futuro, non ci siamo più stesi sul prato tra i bicchieri di plastica, non abbiamo più comprato magliette di Belle&Sebastian, non abbiamo più aspettato un anno intero pur di conoscere Masha Qrella. Eppure, non tutto si perde. Per un po' di tempo mi ero dimenticato di Masha Qrella, finchè quest'anno ha pubblicato un disco meraviglioso, Speak Low, nato da un bizzarro progetto commissionatole dalla Haus der Kulturen der Welt berlinese all'interno della rassegna "New York-Berlin", in cui ha interpretato con il suo costernato romanticismo, con la sua docile inquietudine, addirittura delle canzoni di Broadway di Kurt Weill e Frederick Loewe (ascoltare I talk to the trees per credere). Domenica sera Masha Qrella era a Roma e ad ascoltarla c'era ancora meno pubblico di quel pomeriggio a Benicassim. Fichissima, hipster da morire, il ciuffo, la voce, i jeans, la felpa con il cappuccio, gli occhi bassi, per un momento ho pensato che nulla fosse cambiato. Ho ritrovato quella sua aria imbronciata che ogni tanto si apriva in un sorriso, come quando si passeggia sotto un cielo grigio e all'improvviso si viene illuminati e riscaldati da uno squarcio di sole. Quel sorriso che mi ha regalato quando le ho raccontato del foglietto con le sue canzoni che ho ancora in camera, e mi ha detto che si ricordava di tutto, di me, del concerto, di quel luglio, di Benicassim, di Nick Cave - insomma, di quando eravamo giovani.

sabato 14 novembre 2009

L'arte di saper vivere fuori stagione



Un aspetto della cultura inglese, folk e un po' esoterico, che mi ha sempre affascinato, è il mite struggimento  per il passato svanito, il desiderio di rifugiarsi nella natura e di immergersi in un'esistenza quasi medievale, lontano dalle depredazioni della vita urbana. Ricordo il proprietario della casa londinese dove fui ospite un'estate di tanti anni fa, un uomo sulla cinquantina, ricco -lavorava in Borsa-, ironico, molto solo, che voleva cambiare lavoro e soprattutto non voleva raggiungere la famiglia ospite in Toscana di non so quale nobiluccio locale, perchè il suo sogno era un altro: passare le vacanze -se non la vita- nella vecchia casa semi-abbandonata di famiglia, sperduta nelle campagne del Somerset. Il suo era sia un desiderio geografico che temporale: un ritorno al passato, alla vita agreste, alle estati della sua infanzia. La sera giocavamo a backgammon nel salotto di casa, nel cuore del lussuosissimo borough of Westminster, e a me sembrava una follia che un uomo che possedeva un appartamento del genere -cinque piani in una delle zone più chic della città- mi raccontasse del suo bizzaro anelito di lasciare tutto e di tornare a vivere in quella casa di campagna, senza white goods, senza acqua calda, senza comodità. All'epoca pensavo fosse il solito inglese ricco ed eccentrico, un po' dandy un po' radical-chic, anche perchè gli indizi erano gravi, precisi e concordanti: l'aspetto trasandato, l'abbigliamento "ben malvestito", il taxi come unico mezzo di trasporto, il tappeto per le scale pieno di buchi, l'orgoglio di vivere nell'unica strada di Londra con i lampioni ancora ad olio (sic!), le stanze disadorne, il ritratto del '600 accanto alla scultura di metallo d'arte contemporanea, il bagno interamente rivestito di legno, una moglie che andava in giro a piedi nudi, le partite di calcio con i dipendenti a Battersea Park, il maggiordomo centroamericano. Solo ora capisco che sarebbe riduttivo definirlo in questo modo; in realtà, la sua inquietudine di vivere il mondo in maniera diversa, più semplice, era vera, e lui era semplicemente una persona fuori stagione.     


Non a caso, Out of season fu il titolo che l'anno successivo al mio breve passaggio londinese Beth Gibbons diede al suo disco solista così bello e così fuori moda. Un disco -e un'interprete- di cui sono stato innamorato per molto tempo (se alzo la testa, sulla parete ancora campeggia l'enorme poster della sua copertina), per la sua atmosfera così autunnale, rarefatta, costernata, così lontana eppure -nelle sfumature- così vicina a quella dei Portishead. Beth Gibbons abbandonò per vari anni il suo gruppo, il trip-hop, i lustrini, la trivialità del mercato musicale, la città, il rumore, e si ritirò in un mondo a parte, la campagna del Devon, a contatto con i misteri della natura, concentrata a scrivere canzoni esili, delicate e desolate come Mysteries, Drake (omaggio a un autore la cui eco è ben rintracciabile nel disco) o Sand River. Proprio la prima, un inno alla serenità dell'esilio bucolico, con i rumori del bosco in apertura, le parole estatiche e il video in dissolvenza introduce chi ascolta nell'umore folk del disco, prendendolo per mano come se stesse attraversando un campo abbandonato, al lato di un fiume, per  vedere l'alba:

"God knows how I adore life/when the wind turns on the shores lies another day/I cannot ask for more/And when the time bell blows my heart and I have scored a better day, well nobody made this war of mine/And the moments that I enjoy/A place of love and mystery/I'll be there anytime".

Out of season è un disco che riconcilia con la vita e allo stesso tempo ti fa sorgere lo spasimo di cambiarla, la vita, perchè è un disco sulla memoria, sul passato, sui ricordi, che non sono mera imitazione di luoghi e momenti già vissuti, ma sofferto simulacro di esperienze che continuano a vivere. La voce di Beth Gibbons è cangiante come lo sono i ricordi e le foglie in autunno, a funny time of year, e a volte è rotta, a volte limpida, a volte disperata ("there'll be no blossom on the trees/no blossom on the trees"), a volte sussurrante, a volte dolce, a volte soul, sempre in chiaroscuro;  la musica è arida, essenziale, tremendamente intima, a sprazzi illuminata da sfumature solitarie (i fiati, gli archi, un'armonica, un accenno d'elettronica), sempre evocativa. L'ascolto di Out of season è disagevole, solitario e favoloso, come lo è vivere in una casa di campagna semi-abbandonata, senza elettrodomestici ma con il bosco, il fiume, il cielo e i cavalli.

Beth Gibbons e il mio anfitrione londinese sono espressione di quel gusto tutto inglese per il passato, la natura, il rimpianto, la libertà di fuggire, di perdersi, di ricordare. Epigoni di un dandismo che trovava affermazione nell'uscire -con discrezione- dalla società, e soddisfazione nel farsi da questa desiderare. Penso a Gerald Brennan, lo scrittore inglese che nel 1919, a 27 anni, riparò in Andalusia, nel piccolo villaggio rurale di Yegen, nella sierra delle Alpujarras granadine. A Yegen vi rimase per parecchio tempo, conquistato dalla semplicità della gente e della vita, passando i suoi giorni a recuperare quell'educazione che pensava di aver perso per non essere andato all'università, e a scrivere. Di quell'esperienza, che oggi profuma di agriturismo per famiglie, ma che all'epoca era una piccola follia,  rimane traccia nel bellissimo South From Granada: Seven Years in an Andalusian Village, che Brennan scrisse ne 1957, quando era già tornato in patria.
 

In ogni caso, chi, nel mondo della musica inglese, ha incarnato questo spirito nel modo più radicale è stata senza dubbio Vashti Bunyan, che un bel giorno si stufò di essere una promessa del pop e si mise in cammino verso nord, per tornare sulla scena dopo più di trent'anni. Nel 1968, mentre gli intellettuali alle vongole che ancora ci perseguono ingrossavano la rive gauche (che Dio li maledica, tutti), Vashti Bunyan abbandonò la sua incompresa carriera pop londinese e iniziò il suo pellegrinaggio attraverso la Gran Bretagna, insieme al ragazzo di cui era innamorata, un cavallo e un cane (e presto anche un figlio), dormendo in un pullmino, con l'obiettivo di arrivare fino alle isole Ebridi, e lì fermarsi, al nord del nord della Scozia, della civiltà, della sua epoca. Il suo etereo disco d'esordio del 1970, Just Another Diamond Day, anch'esso parecchio fuori stagione, fu troppo fragile per il mondo reale, brillò per un momento ma si spense subito dopo. Le sue 100 copie furono presto risucchiate dall'oblio. Eppure, poco prima, la sua carriera era stata sul punto di prendere un'altra piega. Nel 1965 si era imbattuta, attraverso un'attrice amica della madre, nel potentissimo manager dei Rolling Stones, che l'aveva messa sotto contratto per rimpiazzare il buco lasciato dall'improvviso abbandono di Marianne Faithfull. A Vashti fu servita la fama su un piatto d'argento, sotto forma di una (in realtà noiosissima) canzone scritta da Mick Jagger e Keith Richards, Some things just stick in your mind, il suo primo singolo, con cui avrebe dovuto ritagliarsi un posto nella swinging London. Eppure, si vedeva lontano un miglio che quel vestito alla moda da pop singer non era adatto a una ragazza che inseguiva una carriera da cantatutrice, una rarità in quei tempi. E così, per quella "skinny art student with an old jumper with holes in it and a guitar slung over her shoulder", come si descrive su un numero di The Wire di qualche anno fa, giunse il momento di capire che doveva scappare da Londra.
 
Iniziò così il suo viaggio per il paese, i boschi, i fiumi, la pioggia, il vento, il silenzio, la gente dimenticata, tutte quelle cose che tu chiamale, se vuoi, emozioni (canzone che potrebbe perfettamente aver scritto Vashti Bunyan); senza soldi, senza beni, senza niente, senza pensieri a parte dar da mangiare al cavallo; lontano dalla città, dagli elettrodomestici, dalla gente; una storia, per me, così profondamente inglese, un lungo cammino d'abbandono e disincanto raccontato con felice nostalgia in Timothy Grub:
 
"They lay there and dreamed of the days
when they'd roam/Up and down the hills of the North
countryside/With the dogs eating buttercups on the 
waysude/And they'd wave all the cities goodbye".
 
Oggi, il mio anfitrione londinese continua a fare soldi in Borsa, a godersi la sua agiatezza e le sue abitudini, anche se probabilmente non ha più nessuno con cui giocare la notte a backgammon. Al massimo, quando non ce la fa più a soppportare gli elettrodomestici che lo circondano, il consumismo delle figlie, la mondanità della London Fashion Week organizzata dalla moglie, si rifugia nel basement, il suo regno di libri accatastati, strumenti abbandonati e confusione varia, e si lascia trasportare dal ricordo di certe estati trascorse al naturale nella vecchia casa di campagna. Beth Gibbons è tornata a fare ciò che l'ha resa famosa, infondendo della sua malinconia la durezza industriale, elettronica e spettrale del nuovo -splendido- disco dei Portishead, Third. Vashti Bunyan, dopo aver vagato per 24 anni tra Scozia ed Irlanda, nel 1992 si è fermata ad Edimburgo, dove tutt'ora vive con i tre figli e un nuovo marito (quell'altro si sarà perso per il cammino, magari in qualche pub).  Nel 2000 Diamond Day è stato ripubblicato, facendole conoscere, finalmente, il discreto successo che meritava. Qualche anno fa è uscito il suo secondo disco incantato,  Lookaftering, fedele testimonianza della sua vita super folk. 
 
La cosa che mi sorprende è che, nonostante siano passati più di trent'anni, nessuna traccia d'amarezza increspa la voce sussurrata di Vashti Bunyan. Ma in fondo, se decidi di vivere fuori stagione, il tempo è come se non passasse mai.

martedì 27 ottobre 2009

Preferisco il rumore del mar cantabrico #1 (San Sebastiàn)


C'è un filo bianco come la schiuma delle onde del mar cantabrico quando si infrangono contro gli scogli che unisce di salsedine, umidità e malinconia i lavori di tanti artisti del nord della Spagna. Da San Sebastiàn a Vigo, passando per Bilbao, Santander, Gijòn, si susseguono città sferzate da una pioggia eterna, cieli grigi squarciati da pomeriggi di sole che accecano i ragazzi seduti sul paseo maritimo, montagne che muoiono nel mare, porti (post)industriali che sembrano il riflesso della dirimpettaia costa inglese, trasformandola da miraggio geografico a influenza culturale reale. Il nord della Spagna è il posto più diverso dalla Spagna che possa esistere e per questo motivo ha generato negli ultimi quindici anni un movimento musicale indipendente che di spagnolo non ha nulla, ma che guarda invece -con un misto di sfida ed ammirazione- oltremanica, quando non direttamente oltreoceano. Solo per fare namedropping, da est a ovest hanno segnato (e molti continuano a segnare) la scena realtà come Tulsa, La buena vida, Family, El inquilino comunista, Mcenroe, Single, Brian Hunt, Mus, Nosotrash, Manta Ray, Nacho Vegas, Migala, Abraham Boba, una fenomenologia musicale con parecchi punti in comune che, se proprio si vuole tracciare una linea di continuità con il movimento indie spagnolo esploso negli anni novanta, più che competere con l'ambiente pop di Madrid o Barcellona sembra guardare direttamente all'Andalusia inquieta che faceva il verso ai New Order o agli Smiths con gruppi come Los Planetas o Sr. Chinarro. Prima o poi bisognerà parlarne di tutto questo, ma non ora.

Ora c'è una città che è la faccia più allegra del nord della Spagna, con la sua spiaggia infinita, il suo festival del cinema, i suoi bar con il flipper davanti al Kursaal, i negozi fighi tipo Loreak Mendian intorno alla cattedrale, le turiste inglesi con i leggings che si divertono al Bataplan; eppure è una città che non riesce a scrollarsi di dosso la sua inquietudine neanche quando ride, perchè le onde non smettono mai di infrangersi contro i pettini del vento di Chillida, il monte Igeldo fa calare la nebbia sulla spiaggia di Ondarreta, la Real Sociedad è scivolata in serie B, le ragazze basche piangono con le nuvole nere come sfondo, e le estati si trasformano in inverno nel giro di una canzone. Quella città sempre fuori stagione è San Sebastiàn e in un bel libro iper-romantico di qualche anno fa, "El invierno en Lisboa" (Seix Barral, 1987), ambientato -però- proprio nella capitale guipuzcoana, Antonio Muñoz Molina la descriveva così:

"Supongo que hay ciudades a las que se vuelve siempre igual que hay otras en las que todo termina, y que San Sebastiàn es de las primeras, a pesar de que cuando uno ve la desembocadura del rìo desde el ùltimo puente, en las noches de invierno, cuando mira las aguas que retroceden y el brìo de las olas blancas que avanzan como crines desde la oscuridad, tiene la sensaciòn de hallarse en el fin del mundo".

San Sebastiàn è uno stile di vita oltre che una città definitiva, la più affascinante di tutto il paese, dove tornare e tornare e tornare un'altra volta ancora, per rigenerarsi, perchè ha ragione Muñoz Molina, sembra la fine del mondo, ed invece non finisce un bel niente, perchè è piena di vita. Allo stesso tempo, è un luogo in cui giocare a sentirsi Tonio Kröger ("Io sto tra due mondi, di cui nessuno è il mio, e per questo la mia vita è un po' difficile"), in cui provare a fuggire da sè stessi, in cui indulgere nella contemplazione del muro bianco, sotto forma di mare perennemente increspato, di cui si sente sempre il fremito. Qualche anno fa un mio amico che lì ha una casa a cinque minuti dalla spiaggia mi spedì il disco che più di tutti incarna un certo spirito donostiarra, "Un soplo en el corazòn" dei Family, un duo assurdo che a metà degli anni novanta decise, più per gioco che per passione, di registrare un disco fondamentale per un'intera generazione e poi scomparire per sempre. Un soplo en el corazòn è il disco da ascoltare di inverno quando si ha nostalgia dell'estate appena trascorsa e si attende con trepidazione l'estate che deve arrivare, perchè le cose più belle e quelle più tristi succedono solo in quei tre mesi, e il resto del tempo sono solo esercizi spirituali per giovani adolescenti, in cui imparare la nobile arte del rimpianto e dell'illusione, come ne "El bello verano":

"Tengo ganas de fiesta, de que acabe el invierno, de volver a nadar en el mar. De soñar el verano en el que fuimos novios y poderle cambiar el final [..] Tu cara triste, mi amor de plata, podemos volver a empezar. Seremos delfines o ballenas azules viviendo en el fondo del mar".

Perchè San Sebastiàn, così come l'estate, o l'adolescenza, o il nord, sono come il diritto secondo Savigny, non hanno un'esistenza empirica per sè stesse, ma la loro essenza, piuttosto, è la vita stessa dell'uomo contemplata da un punto di vista speciale. Un disco che parla di San Sebastiàn è allora necessariamente un disco imperfetto, ingenuo, immaginativo, ma allo stesso tempo un disco "in cui non manca nulla e nulla è di troppo", come lo descrisse il mio amico basco, perchè così è la città che rappresenta. Lo stesso amico che, in una recente lettera, si lamentava per la sua incapacità di afferrare i dettagli di ciò che lo circonda, perchè "credo che arrivo alle cose, le capisco però rimango lì, non vado oltre, mi fermo alla superficie, non approfondisco e così quel poco che imparo non posso trasmetterlo", quando invece proprio lui mi ha trasmesso il dolce piacere di sedersi per ore e ore sul muro della spiaggia più estrema della città, quella di Gros, con un botellìn di birra dopo l'altro in mano, finchè il sole non tramonta dietro l'isola di Santa Clara, i surfisti più temerari sciamano verso i bar del lungomare, il vento autunnale soffia sempre più forte, e si fa l'ora della proiezione del prossimo pallosissimo film argentino al festival;  
oppure di ripararsi in certi gelidi pomeriggi d'inverno dietro le vetrate del Branka, il bar sotto la casa di Chillida e al lato del circolo del tennis, con un mentapoleo fumante tra le mani, le ragazze che distrattamente passano davanti e il giornale sportivo aperto sul tavolo di fòrmica; in un caso e nell'altro, sempre con lo sguardo fisso al mare, rivolto alle onde che arrivano da chissà dove per morire sulla spiaggia, ripensando alle estati mancate della nostra vita e avendo fiducia in quelle che verranno, ricordando gli amici del mare che -chissà perchè- il resto dell'anno non esistono, affondando nella nostalgia di certe melodie del gruppo più famoso mai uscito da San Sebastiàn, La buena vida, che, guardacaso, proprio in una canzone che si chiama "Verano" si auguravano che "Tal vez el mejor verano sea el que hoy me das".

domenica 18 ottobre 2009

1999, o l'anno in cui è cambiato il mondo




E' difficile staccarsi da 1999, l'ultimo disco dei catalani Love of Lesbian, che più che un disco è in realtà un piccolo romanzo di formazione, il resoconto -molto letterario- di un anno chiave nella storia d'amore post-adolescenziale tra due ragazzi di Barcellona. E' difficile staccarsi perchè è un disco trascinante, nostalgico, emozionante, così come emozionante è la voce di Santi Balmes, cantante e autore dei testi, che con le sue parole è come se ci mostrasse la parete piena di polaroid della sua stanza di dieci anni fa. E' difficile staccarsi perchè ognuno di noi ha vissuto il suo 1999, ed allora ad ascoltare certe storie di grida, concerti, frangette, dischi, questioni di famiglia, fughe e finestre rotte vengono in mente altre storie, questa volte vissute, che pero' non hanno avuto nemmeno la consolazione della memoria in un disco così bello. In un'intervista, a domanda banale ("¿Cuánto de autobiográfico tiene el disco?"), Balmes risponde da campione: Yo diría que un 70 por ciento es autobiográfico y el resto es fantasía, como me hubiera gustado que fueran las cosas en un momento dado ¿no?. Ha ragione: per quanto si può essere felici in un certo momento storico, non si perde mai la consapevolezza di poterlo essere ancora di più, e allora anche il passato -soprattutto in un disco- è bello ricordarselo in parte per quello che è stato e in parte per quello che sarebbe potuto essere.

Il passato dell'universo di Santi Balmes si apre con l'impattante immagine di un eterno ritorno sul luogo del delitto sentimentale. Allì donde solìamos gritar è il ritorno, dieci anni dopo, alle panchine sopra il porto industriale di Barcellona, dove Balmes andava a gridare con la sua ragazza quando si sentivano inquieti. Quelle grida si sentono ancora, così come quelle panchine ancora conservano tutti i versi di Heroes, che avevano inciso al buio e senza pensare,  "con las faltas de un chaval". Dodici canzoni e dodici polaroid dopo, il disco si chiude con 2009. Voy a romper las ventanas, ovvero la consapevolezza che per quanto tempo sia passato, è inutile provare a dimenticare, perchè tanto non è cambiato niente; che è ancora presto per  rinunciare, perchè, come dice anche un mio amico di Pamplona, la malinconia è la felicità di essere tristi; e che soprattutto, rispetto a quegli anni, non siamo mai cresciuti, e non ci siamo mai equilibrati (e possibilmente, non lo faremo mai). L'ultima immagine fa allora il paio estetico con la prima: non sono più grida che fendono l'aria, ma sassi che rompono finestre, vetri che piovono, ricordi che ritornano:

"Voy a romper las ventanas
para que lluevan cristales,
ven a romper las ventanas,
ven a gritar como antes,
ven a romper las ventanas
y hacer del caos un arte,
voy a romper tus ventanas
y voy a entrar como el aire.."
 

Dieci anni fa c'erano finestre ben precise che avrei voluto rompere, per poterci entrare come l'aria. Stanze da letto ben definite, con la moquette per terra e i vocabolari di greco e latino sugli scaffali. Universi di lentiggini da esplorare. Senza la forza visiva presente nel disco dei Love of Lesbian, descrissi il mio 1999 (proprio quell'anno!) in un libro che si potrebbe definire -Cortàzar non si offenderà- di "realismo fantastico", perchè raccontavo una storia vera che in realtà non era mai esistita, o meglio, forse una storia di fantasia che in realtà, per me, sì che era esistita. Che poi, quando si racconta una storia, soprattutto se è la propria storia, è davvero così importante sapere se è successa davvero? Ci saranno sempre delle cose che non si possono raccontare, ed altre che è meglio aggiungere. Lo stesso Santi Balmes, rispondendo a tutt'altra domanda, offre una lettura su questo tema della sincerità. Siccome ha scritto i primi tre dischi in inglese e gli ultimi tre in spagnolo (rinnegando la scelta di cantare in un'altra lingua come un errore che nessun gruppo dovrebbe commettere), gli chiedono che ruolo ha per lui il catalano, di fatto la sua vera lingua madre:
 
"El catalán es nuestra lengua materna, es lo que hablamos en la furgoneta. Yo aprendí a hablar castellano a los cinco años. El problema que tengo yo con el catalán, que quizás lo debería de superar, es que al ser mi lengua familiar, me pongo más serio. Con tu madre no hablas de lo que hiciste anoche... me cambia mucho la configuración psíquica cuando hablo en una u otra lengua, es una pasada".

Ci sono lingue in cui è più facile parlare di sè stessi, perchè non sono la nostra lingua. Ci sono storie in cui è più facile identificarsi, perchè non parlano di noi. Ci sono ricordi in cui è più facile riconoscersi, perchè non sono i nostri, ma quelli che avremmo voluto vivere. Mi ha detto un amico che la ragazza con cui dieci anni fa avrei voluto gridare si è sposata la settimana scorsa. Gli ho risposto che, allora, la settimana scorsa si è definitivamente conclusa un'epoca. Quell'epoca iniziata nel 1999, che doveva essere l'ultimo anno del mondo e che invece -ora capisco- per me, come per Santi Balmes, è stato solo l'ultimo anno di un certo mondo, di cui oggi non rimane nulla, se non la certezza di averlo vissuto. Meglio così; se domani ritornasse, non saprei più come viverlo.

domenica 4 ottobre 2009

Non arrivarono avvoltoi, perchè anche loro erano morti


Non è raro nè indolente fermarsi ad osservare, di tanto in tanto, la piccola biblioteca o la collezione di dischi o l'insieme delle immagini appese alle pareti della propria stanza e domandarsi che cosa lega tra loro quei nomi, quei titoli e quei volti che, come scriveva lo scrittore e filosofo messicano (ma nato a Firenze) Alejandro Rossi, per sè stessi non sono altro che "objetos sin historia, que nos rodean de soledad". Non è raro nè gratuito aprire gli scatoloni polverosi pieni di oggetti che ci si è portati dietro da una città lontana e domandarsi che cosa, al di là dei singoli oggetti, si è effettivamente preso, ed appreso, in quell'altro mondo, ormai scivolato via come spremuta d'arancia tra le mani. Non è raro nè nostalgico pensare alle carcasse che si sono disseminate in altri paesi, in altre vite, nel proprio passato e domandarsi che cosa pensava Antonio Luque quando nella pagina interna del suo primo disco (Sr. Chinarro) scriveva "no acudieron buitres, pues tambièn habìan muerto", e se aveva ragione.

Ciò che è raro e, in fondo, inutile, è dare delle risposte certe a queste domande. Meglio, molto meglio, lasciare che l'inquietudine ricostruisca il percorso a ritroso, limitandosi ad accompagnare i passi come il battito delle mani accompagna un flamenco gaditano. Meglio, molto meglio, lasciare che poco alla volta indizi confusi, associazioni fugaci e casualità esistenziali suggeriscano i nostri contorni, tracciando le linee verosimili, malinconiche e senza troppe ambizioni delle tante cose che ci sono passate per la testa e per le mani. Sempre Alejandro Rossi, nel suo imperdibile Manual del distraìdo (editore Anagrama, 1980), parlando di come affrontare proprio il suo libretto, ci offre una chiave di lettura molto più generale, applicabile non solo alla letteratura, ma ai viaggi, agli incontri, alla vita stessa: "Lèelo, si es posible, como yo lo escribì: sin planes, sin pretensiones còsmicas, con amor al detalle". D'altronde, quello di pensare che dietro a tutto ciò che ci circonda ci debba essere necessariamente un senso puntuale, che la nostra intelligenza è chiamata a disinnescare, pena una terribile e indifesa ignoranza, non è un tratto naturale di qualsiasi carattere; anzi, è più che legittimo non assegnare alcun significato profondo ai propri gesti e all'interpretazione dei gesti degli altri. Tuttavia, quando tale inquietudine latente esiste, essa costringe a interrogarsi criticamente su ogni aspetto della propria vita, dal film appena visto al silenzio di una ragazza lontana, dalla ricetta del salmorejo alla panchina del giocatore apparentemente più talentuoso della squadra. Questo morbo, di cui Rossi -che ci ha lasciato appena qualche mese fa- si confessa felice vittima ("Pero que soy una persona que piensa, lo puedo jurar. Todo el dìa, desde que me despierto, pensar es una actividad que practico con desesperaciòn y desgano"), lo stesso autore lo esprime attraverso le riflessioni di Georg Christoph Lichtenberg, scienziato, scrittore e filosofo tedesco del diciottesimo secolo:

"Uno de los rasgos màs singulares de mi caràcter es ciertamente la extraña supersticiòn que me lleva a extraer una significaciòn de cada cosa y en un dìa transformo a cien objetos en otros tantos oràculos".

Scorre dunque sotterraneo il riconoscimento che gli oggetti e le persone che ci attraggono e di cui ci appropriamo durante le varie fasi della vita si riflettono su di noi, e con i loro influssi contribuiscono ad orientarci verso una certa direzione, che solo apparentemente ci sembra di aver scelto. Avvicinarsi a un certo stile altro non è, dopo tanti pensieri, che il risultato della raccolta delle cose e delle persone che abbiamo trovato e, nel tempo, lasciato per strada, nella speranza di aver trovato e lasciato bene. A questo proposito, spiegava Julio Cortàzar al suo intervistatore durante una lunga puntata del 1977 di A fondo, il leggendario programma della TVE che in quegli anni aprì le porte della televisione ai più influenti scrittori di lingua spagnola di questo secolo, che se uno ha delle cose da dire e non le dice nel modo che sente essere l'unico modo per dirle, allora è come non averle dette o averle dette male. Questa è l'importanza di cercare e trovare il proprio stile, per immunizzarsi di fronte alla paura di non poter vivere tutto ciò che capita di interessante nel modo in cui si vorrebbe viverlo, per respingere l'inquietudine che raffiora quando ci si rende conto di non essere felici quanto si potrebbe esserlo, e spinge ad iniziare altri quattro libri quando quello che si sta leggendo, in realtà, non è che sia così noioso.
Tuttavia, questa foga di conoscere, di accumulare, di sperimentare, tanto in libreria come al bancone del bar, è l'unica strada percorribile per educare la propria sensibilità, pur accettando sin dal principio la premessa che la vita, come avverte Nacho Vegas in La pena o la nada, "es parte buscar placer, y parte hallar dolor", anche se tra il niente e il dolore è sempre preferibile il secondo. Perchè se alcune cose le abbiamo a portata di mano, altre ci accompagnano come ricordi e molte altre ancora sono invece solo delle carcasse, sulle quali neanche più volteggiano gli avvoltoi, perchè sono morti anche loro. Ma tutto ciò serve a darci uno stile, che non può che mutare ed evolversi al mutare ciò che ci circonda. Non a caso, con queste parole si conclude uno dei tanti brevi capitoli che formano Nocilla Dream, il sorprendente romanzo d'esordio, marcatamente postmoderno, che Agustìn Fernàndez Mallo, fisico e poeta galiziano di spiccato aspetto indie, ha pubblicato nel 2006:

"De ahì que el "yo" consista en una hipòtesis inamovible que al nacer se nos asigna y que hasta el final sin èxito intentamos demostrar".

Non a caso, perchè Nocilla Dream, pubblicato -coraggiosamente- in Italia da Neri Pozza con il titolo Il sogno della Nocilla (ovvero, l'autarchica Nutella spagnola), non è un romanzo ma un insieme di stralci, soprattutto iniziali, di storie vere e storie inventate in cui realtà e fantasia spesso si intrecciano, permettendo a volte di ricostruire i loro antecedenti o di immaginarsi il loro prosieguo, e altre volte no. Ovvero, nient'altro che la stessa fenomenologia di esperienze che si ripete nella vita. Coglie bene lo spirito di quest'opera bizzarra un articolo dell'Unità, secondo cui il lettore "si accorge, spaesato divertito sospettoso, che il mondo non è fatto di cose stabili ma dei significati che vengono dati di volta in volta alle cose". E infatti, "è davvero impossibile riassumere Il sogno della Nocilla, perchè le molte storie che Mallo racconta hanno senso solo in un insieme in cui la storia della prostituta che sta in un bordello al limite del deserto del Nevada, e quella del venditore di disegni per tombini, e quella dell'uomo che costruisce a Las Vegas un monumento forse geniale forse incomprensibile a Borges, combaciano tra loro solo come storie strappate: letteralmente lacerate come pezzi che per avere un senso devono unirsi ad altri pezzi di vita, ad altri frammenti di mondo". La conclusione è che Nocilla dream è "un disperato e euforico atto di amore verso il paesaggio di rovine lucenti del post-contemporaneo, un luogo ancora senza nome ma in cui già abitiamo tutti senza saperlo".

Il cerchio si chiude, perchè Fernàndez Mallo, nella concisa biografia che accompagna il risvolto del suo libro, si dichiara "fan de Sr. Chinarro", come lo sono io. Addirittura, in un articolo dello scorso maggio dedicato dal quotidiano Pùblico ai "musicisti che scrivono come poeti", lo stesso autore ritiene al riguardo che, sebbene si possano salvare frammenti di varie canzoni, non manca qualche esempio di canzone che può considerarsi interamente come un'autentica poesia: "no hay muchas, pero una canción que creo que funciona toda ella como poema es Escapa amanecer, de Sr. Chinarro", proseguendo poi l'articolo che "curiosamente, casi todos los poetas consultados han mencionado a Antonio Luque, el nombre real de Sr. Chinarro, como uno de los letristas -alguno lo llamó poeta- más destacados en la actualidad". Il cerchio si chiude, perchè Escapa amanecer, una delle canzoni meno conosciute e più dolenti del Sr. Chinarro e, allo stesso tempo, una delle mie preferite, guardacaso fa parte proprio del primo disco del gruppo di Antonio Luque, quello degli "avvoltoi che non arrivarono, perchè anche loro erano morti". Ho pensato tante volte a cosa vuol dire questa frase, osservando i cactus arsi dal sole fotografati nella copertina del disco, ascoltando la storia "strappata" del niño calamar, e per fortuna non l'ho ancora capito.